LA TRASPOSIZIONE FISIOLOGICA DELLA BALENA di Martina Merletti
La trasposizione fisiologica della balena. Moby Dick e Il vecchio e il mare: breve saggio sull’etologia della sintassi.
Non sono mai stata una grande appassionata di immersioni, anzi: da nipote di pescatori ho sempre preferito rimanere al di sopra dell’acqua, piuttosto che immergermici. So, tuttavia, che per gli animali che immersi ci vivono esistono due modi di respirare. Uno è proprio dei vertebrati di origine terreste, inclusi uomo e balena, che risalgono in superficie per immagazzinare ossigeno atmosferico, comunemente noto come polmonare. L’altro è, al contrario, tipico della maggioranza dei pesci che, al posto di sacchi polmonari, hanno sviluppato un sofisticato meccanismo controcorrente basato sull’evoluzione delle branchie.
Nell’estate del 2016, il caso volle che, proprio in riva al mare, mi capitasse di leggere in contemporanea Moby Dick e Leviatano, il saggio in cui lo scrittore inglese Philip Hoare si dedica all’assemblaggio di una composita ode alla balena e nel quale così descrive la respirazione dei cetacei:
“Dallo sfiatatoio la balena espelle quattrocento litri d’aria al secondo, una nuvola umida dentro cui la luce solare forma l’arcobaleno. Ripete il processo più volte, fino a quando non ha immagazzinato abbastanza ossigeno ed è pronta a rituffarsi ancora. Immergersi comporta una vera trasformazione interna. L’animale fa collassare i polmoni (al cui interno una speciale sostanza mucosa impedisce che le pareti si appiccichino) e ripiega le costole in apposite pieghe, convogliando tutta l’aria in cavità situate nel cranio. Questa tecnica, combinata con la mancanza di azoto nel sangue e nelle ossa, evita le patologie da decompressione. Più sofisticata di un sottomarino, la balena è un miracolo di ingegneria navale”.
“Le balene”, continua poi Hoare, “esistono in una dimensione che va oltre la norma, oltre ciò che ci aspettiamo di vedere nella nostra quotidianità”. Stiamo effettivamente parlando di uno dei mostri sacri dell’immaginario antropologico e letterario, la creatura dal respiro più lungo e spettacolare di tutti i mari. E, a proposito di respiro, leggendo Moby Dick nella traduzione di Cesare Pavese edita da Adelphi iniziai a imbattermi in passi di questo genere. È notte, il mare è calmo e il Pequod avanza lento sulle acque scure:
“Fu scorrendo per quest’ultime acque che una notte serena di luna, mentre tutte le onde si voltolavano come volute d’argento, e coi loro molli, diffusi ribollimenti creavano quel che pareva un argenteo silenzio e non una solitudine; fu in una simile notte di silenzio che uno spruzzo d’argento si vide lontano, nella direzione delle bianche bolle a prora. Illuminato dalla luna, pareva una cosa celeste; sembrava un dio piumato e risplendente che sorgesse dal mare. […] Quando, dopo tutto questo silenzio, s’udì la sua voce ultraterrena segnalare quell’argenteo spruzzo lunare “ciascun marinaio disteso balzò in piedi come se qualche spirito alato fosse disceso sull’alberatura per rivolgere la parola all’equipaggio mortale. «Laggiù soffia!». Fosse suonata la tromba del Giudizio, non avrebbero potuto rabbrividire di più, eppure non provavano terrore, ma piuttosto un piacere. Poiché, quantunque fosse un’ora inaudita, così impressionante era il grido e così follemente eccitante che quasi ognuno a bordo desiderò istintivamente di scendere in acqua.”
Lo sfiato di Moby Dick.
Un susseguirsi di incisi e subordinate che si muovono sulla pagina come acque al largo degli oceani: a perdita d’occhio e senza soluzione di continuità. Un’ipotassi che induce il lettore a prendere ampie boccate d’aria, muovendosi, come incantato, in un mondo di aggettivi e punteggiatura. Provate a leggerlo ad alta voce: si tratta di un respiro sintattico che altro non è se non il calco dello sfiatare della balena, spettacolare e lunghissimo. Tra un punto e l’altro si ritorna in superficie per poi immergersi nella profondità del periodo, perdersi negli anfratti del pensiero melvilliano. Un respiro sintattico che del cetaceo prende anche le dimensioni, poiché, spesso, il periodare di Herman Melville occupa uno spazio fisicamente imponente – mezza pagina o più – ed è costruito con una complessità che, in un mirabolante gioco di equilibri semantici e grammaticali, trascina il lettore in profondità tematiche e letterarie che, al pari di quelle raggiunte dalla balena, possono risultare bentoniche, oscure e complesse, difficili da decifrare.
Quell’estate iniziai dunque a pensare, a partire da queste considerazioni, che l’opera di Melville fosse interpretabile attraverso un’ulteriore lente, questa volta però strettamente scientifica, fisiologica oserei dire. Iniziai a pensare che la sua opera costituisse, più o meno consapevolmente, la traduzione organica e non solo simbolica del capodoglio.
Lo stesso Hoare a proposito della balena scrive: “è stata l’unica in grado di conferire tanta forza al libro di Melville: dopo tutto Moby Dick non avrebbe potuto avere come protagonista una farfalla”. Ma supposto che questa intuizione avesse senso, valeva solo per Moby Dick o era estendibile ad altri casi? Per verificare la tenuta dell’ipotesi decisi di andare a fondo nella comprensione del funzionamento della seconda modalità respiratoria – quella branchiale – e metterla a confronto con gli immensi polmoni della balena.
Nei pesci, l’acqua – nella quale è disciolto meno di un ventesimo dell’ossigeno presente in atmosfera – entra dalla bocca ed esce filtrata dalle branchie. Durante questo tragitto passa per i filamenti branchiali, ricchi di capillari sanguigni, dove avviene lo scambio di ossigeno. L’efficienza di questo sistema è altissima: rispetto alla respirazione polmonare, che difficilmente arriva a trattenere più del 25% dell’ossigeno atmosferico, le branchie sono in grado di estrarre fino al 90% dell’ossigeno disciolto in fase acquosa. È un meccanismo preciso e costante, privo di gesti eclatanti ma perfetto, che porta i pesci a compiere movimenti discreti, apparentemente privi di sforzo.
Ne Il vecchio e il mare Hemingway dà voce a un Santiago esausto, che si rivolge così al marlin mutilato con il quale naviga verso casa:
“Non avrei dovuto andare così al largo” disse. “Né per te né per me. Perdonami, pesce. […] Tu che sei stato un pesce. Perdonami di essere andato troppo al largo. Ho mandato in malora tutti e due.”
Paratassi, anafore e punteggiatura forte. La penna dello scrittore statunitense è limpida, precisa e costante, apparentemente priva di sforzi o gesti eclatanti. Si muove in maniera del tutto simile al rettilineo guizzare di un pesce, con scatti muscolosi e posati, eleganti; prima a destra, poi a sinistra. In ogni caso non serve aver letto Il vecchio e il mare per aver sentito parlare, almeno una volta, della proverbiale dote chirurgica della scrittura hemingwayana.
Melville, nel capitolo L’albatro nella traduzione italiana di Ottavio Fatica edita da Einaudi, scrive:
“…nella ricerca di quei remoti misteri che sogniamo o nella caccia tormentosa al fantasma demoniaco che, prima o poi, nuota davanti a ogni cuore umano, nel dar la caccia a tali cose intorno al globo, esse ci conducono in labirinti sterili o ci lasciano schiacciati a mezza strada.”
È lo stesso concetto espresso da Santiago: l’irrinunciabile desiderio umano di sondare profondità insondabili e oltrepassare limiti non oltrepassabili. La sete di discernimento di sé e del mondo che attrae gli esseri umani nell’oscurità che ci attende là dove non ci è dato governare, né conoscere; là dove sono gli abissi, i mari e gli oceani.
Che questi elementi trovino posto tra gli archetipi narrativi per eccellenza è risaputo. Come afferma Edward O. Wilson in La creazione, edito da Adelphi nel 2008, “a ben vedere, le persone si riservano sempre la possibilità di immergersi ogni tanto nel complesso e primordiale mondo che ci ha dato origine. Abbiamo bisogno della libertà di vagabondare nella terra che non è di nessuno e che è protetta da tutti, il cui immutato orizzonte è lo stesso che segnava i confini del mondo dei nostri ancestrali antenati. Solo in ciò che rimane del Paradiso, brulicante di vita che non dipende da noi, è possibile fare esperienza del tipo di meraviglia che ha forgiato la psiche umana alle sue origini. […] Il nostro rapporto con la natura è fondamentale. Le emozioni che essa evoca in noi […] si sono formate nella notte dei tempi durante la preistoria dell’umanità e sono perciò profonde e ricche di significati simbolici”.
Non è dunque un caso che tanto Hemingway, quanto Melville, nell’atto di sondare le profondità umane, pongano i loro uomini a confronto con la forza soverchiante della natura. Ma entrambe le penne ci pongono davanti a qualcosa che va oltre il semplice archetipo narrativo; mostrano come la natura profonda, fisiologica, degli animali a cui gli autori legano indissolubilmente i loro protagonisti, i loro meccanismi respiratori e i movimenti con cui si muovono negli oceani, siano intimamente legati non solo al tema, ma anche al ritmo della loro prosa, a una vera e propria traduzione sintattica della fisiologia del marlin e del capodoglio. “Il mondo naturale è ancora ben presente nei nostri geni e non può essere eliminato tanto facilmente”, scrive sempre Wilson, definendo l’attrazione che la natura esercita sulla psiche umana come biofilia.
Non è dato sapere se questa trasposizione sia un fatto intenzionale o involontario, oppure se, al contrario, gli autori abbiano scelto, più o meno consapevolmente, animali con movimenti simili a quelli delle rispettive prose. Ciò che forse non è casuale, però, è che in entrambe le opere questa sorta di traduzione sia avvenuta. E, togliendoci dall’ambiente strettamente acquatico, potremmo andare a vedere quanta traccia della leggiadra e fragile miniaturizzazione dell’ape sia riscontrabile nei versi della famosa poesia di Trilussa o, ancora, quanta maestosa e crudele solitudine boschiva del lupo animi la sintassi di Jack London.
Nel dialogo tra intenti e forma, temi e contenuti, la trasposizione fisiologica della balena da una parte e del marlin dall’altra appare dunque – o almeno apparve a me in quell’estate del 2016 – come una realtà letteraria non solo giusta, ma inevitabile, senza la quale Moby Dick e Il vecchio e il mare forse brillerebbero con meno fulgore nel panorama della letteratura americana.
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