BABA by Giovanni Lo Vano
Un sabato pomeriggio,
una piccola cittadina in Piemonte.
Quel sabato pomeriggio sono andato giù in centro per comprare le sigarette. Sono uscito per le due circa e ho imboccato il corso principale che ti fa arrivare in centro città in dodici minuti di passeggiata. Fuori c’era un silenzio insolito. Non si vedevano persone in giro e le poche che si incontravano avevano un je ne sais quoi di anormale. Mi spiego, avevano un fare sospetto, erano loschi, sembravano tutti dei criminali, me compreso. Chi invece se ne andava in giro tranquillamente erano gli psichiatrici, i pazzi, fuori di testa, che anormali lo sono sempre stati. Lo dico perché l’ho constatato, voglio dire ho notato che se esci il sabato pomeriggio intorno alle due\tre trovi un sacco di pazzi; soprattutto quando le previsioni meteo danno docce imminenti e consistenti. Quel sabato pomeriggio non è andata diversamente: in realtà non pioveva ancora, il cielo era mezzo grigio mezzo dorato, quasi come se dovesse piovere ma non dovesse piovere abbastanza; era come quando vai a Trieste e passeggi e ti sembra che la città abbia la febbre.
Per farla breve ho comprato le sigarette alle macchinette e me ne sono andato verso casa timoroso di beccarmi un acquazzone. In una via del centro, ad un certo momento, ho riconosciuto dalla distanza una vecchia pazza venire verso di me, io la conoscevo, perché ogni volta che la incrociavo mi insultava o mi urlava dietro qualcosa, senza un evidente motivo, straparlava e se la prendeva sempre con me, era proprio strano. Si stava avvicinando e non ho potuto fare a meno di pensare: ora mi dice qualcosa ora mi dice qualcosa sono sicuro e… -PUM! TOH! Vaffanculo!- Mi urla lei sfoderando il dito medio e piazzandomelo ben dritto davanti agli occhi. Cristo, ho pensato, e non ho potuto fare a meno di scoppiare a riderle in faccia. Ho allungato il passo e sono fuggito. Me lo sentivo, me lo sentivo ed è successo, è strano, ho pensato. - Assassino!! Assassinooooo!!!! - gridava ancora lei dal fondo della via. Ho provato pena, poco dopo.
Arrivato in piazza la fontana era piena d’acqua ma il marmo era azzurrino e col cielo mezzo grigio dava l’aria di essere una piscina, dentro vi erano monetine posatesi sul fondale ed io mi sono messo a osservarle, poi ne ho tirata una fuori dal mio portafogli e l’ho gettata, una da cinque centesimi, e ho visto l’acqua scuotersi e poi placarsi di nuovo, ma non son riuscito a distinguere il mio riflesso dal resto.
Il ricordo della donna col dito medio appiccicato alla mia faccia non stava lasciando spazio ad altri pensieri. Se in un primo momento la cosa mi era risultata buffa o addirittura esilarante, adesso il ricordarlo mi dava un senso di disagio, inquietudine, quasi come se quella vecchia avesse letto qualcosa in me solamente fissandomi negli occhi e mandandomi al diavolo. Vecchia pazza! Ho pensato, Dio mio, che problemi hanno tutti questi pazzi? Prima lei, l’altro giorno il tizio sbavante che parlava in una lingua non-esistente e si strizzava il pacco, che altro? Nessuno li tiene a bada? Perché li lasciano liberi per la città come gatti randagi?
Mi sono fatto un caffè, ero nervoso, l’ho preso da una macchinetta automatica, era un caffè stagnante e puzzava. Mi sono seduto a bordo-fontana fumando una cicca. Il primo è stato un tiro incredibile, un tiro di quelli pieni che ti scaricano la dopamina tutto d’un colpo in tutto il corpo. Ho chiuso gli occhi. Poi mi è venuto in mente di quel tipo pazzo che vedevamo sempre al parcogiochi che per fumare si fermava, restando in piedi, apriva le gambe ben larghe e dava un gran tiro chiudendo gli occhi, assaporando il dolciume della cicca nello stesso modo in cui io lo stavo assaporando in quel momento; Cristo, ho pensato, fumo come fumano i pazzi? Una bambina che passava vicino alla fontana mi ha guardato incuriosita, la madre l’ha allontanata dalla fontana. Che vuole? Perché mi guardava così e perché la madre l’ha allontanata come se fossi chissà quale criminale?
Il cielo continuava a ricordarmi Trieste e ricordando Trieste ho ricordato Ljubljana e ricordando Ljubljana ho ricordato quella volta in cui ero con i miei compagni di liceo al mercato dei fiori, e quella vecchia strega pazza ci aveva avvicinato. Era molto scura di pelle piena di peli bianchi in faccia e vestita con quello che poteva essere un enorme sacco di iuta. I capelli erano un ammasso marroncino e appiccicoso in cui non potevi distinguere nulla, un’oscurità indefinita e puzzolente. Sorrideva, la strega, sorrideva con un sorriso malvagio, e ci sussurrava cose in lingue zingare, aveva anche un bastone ora che ci penso, non da passeggio, un vero e proprio bastone di legno tagliato male come se fosse stato appena staccato da un albero sporco. Vecchia megera, vecchia baba, ho pensato. Che paura che mi aveva messo, mi ero cacato sotto lo ammetto. Ma perché devo pensare sempre a queste cose? Che cosa ci avrà mai detto quella volta quella baba? Che cosa avrà detto a me singolarmente?
Finito il caffè ho fumato un’altra cicca e finita l’altra cicca l’ho buttata in terra e sono corso a casa, o quasi, non sarebbe normale correre per strada se non stai facendo jogging o se nessuno ti insegue. Un po’ ho corso, non tanto, passo spedito diciamo, per arrivare più in fretta a casa e spararmi in faccia una doccia fredda.
Ma casa mia non c’era più.
Non c’era più nulla. Lungo la strada solo erbacce, e dove fino a un’ora prima credevo ci fosse la mia casa ora c’era polvere marroncina che volava in aria, e cacche di cane. Ero stato forse condannato al nomadismo? Era quello ciò che aveva detto quella baba? Mi aveva condannato lei o non avevo semplicemente mai vissuto lì, in mezzo a quella polvere marroncina? Ero stato privato di qualcosa, da qualcuno. Avevo semplicemente sbagliato strada? Ma impossibile io lì ci sono cresciuto! Lungo quella strada correvo col mio vicino di casa Gennaro quando ci finiva la palla fuori campo e dovevamo andare ad acciuffarla prima che venisse distrutta dalle macchine che sfrecciavano e ci sparavano la polvere marroncina in faccia. Il piccolo Gennaro era poi morto, di cancro, poco prima di compiere dieci anni.
Mi è venuta in mente la vecchia pazza, che mi aveva fatto il dito medio mezz’ora prima, mi è sembrato un mese prima. Scusa, ho pensato, ho fatto male a parlar male di te con loro. Eravamo piccoli all’epoca, così piccoli! Non l’ho fatto apposta, Luisella, non l’ho fatto apposta.
Ho sentito un pianto nascermi nel petto e il torace restringersi, poi è tutto arrivato come un’onda.
Ci era finita la palla troppo più in là e avevo obbligato Gennaro a recuperarla perché era stato lui a calciarla per strada, gli ho detto corri Genni! Prendila ora prima che arrivi! Dai! E poi è arrivata, una golf di quelle vecchie, con un padre ubriaco al volante; Genni non l’ha nemmeno vista, lui però lo ha visto, subito prima di frenare, e anche tu l’hai visto, sporta alla finestra, ma era troppo tardi. L’ha poi venduta la golf, tuo marito, non l’ha più voluta vedere. Poi è tornato a casa, ha preso la motocicletta e non è più tornato. Tu da allora parli da sola e mi insulti ogni volta che mi vedi. Luisella, la mia pena l’ho scontata, la baba me l’aveva detto quando l’avevamo presa in giro, quando le avevamo sputato addosso in piazza a Ljubljana; tornati dalla Slovenia Genni ha iniziato a visitarmi tutte le notti, e piangeva e piangeva, diceva che era colpa mia e che non avrei mai dovuto mandarlo in strada a recuperare la palla, fino a quel viaggio non ci avevo più pensato, poi la baba ha avuto premura di farlo tornare, e io ho pianto così tanto e il piccolo Genni piangeva con me; si metteva sotto le lenzuola e frignava e frignava, e io non dormivo più. Così, cara Luisella, ho fatto un salto in garage, mi sono allacciato una cinta al collo e mi sono lasciato cadere, sperando che in quel modo il senso di colpa sarebbe svanito come polvere marroncina nel vento. Ma poi mi son risvegliato e tutto era così strano, la mia memoria molto sfocata e il mio corpo molto leggero. Ho continuato però a vederlo, Genni, adesso giocavamo di nuovo a pallone ma nessuno ci parlava e nessuno ci vedeva e nessuno poteva farci del male. A parte te, Luisella, te ci vedevi, e i bambini anche ci vedevano, che ridere le facce dei genitori che non capiscono con chi stia parlando il proprio figlioletto o la propria figlioletta; di solito parlavano con noi. Che ridere le facce delle persone quando vedono un pacchetto di sigarette cadere nelle macchinette senza che nessuno le abbia comprate, o un bicchierino di caffè venire preparato e andarsene via come se avesse messo ali!
Ma ora, diomio, non ho più nemmeno una casa, e il fumo delle sigarette non lo sento nemmeno più, è aria che attraversa un corpo vuoto.
Dove sono tutti?
La città è deserta, gli alberi spogli, e in lontananza si avvicina un tornado marroncino e polveroso, che fa alzare tutto e sradica tutto, mi guardo le mani ma sono fredde e sbiadite, il tornado procede e il suo passaggio funesto distrugge le case del quartiere, distrugge le case del mondo, proprio come è successo alla mia. Mi sento stanco, sto perdendo consistenza? Forse, ma sono proprio stanco.
Un po’ di memoria mi è tornata, un po’ di pace.
Posso andarmene.
The end