KUMKA by Manuel Cordero
Sinossi dell’Opera: Il racconto inizia con la storia di una guerra, passata, tra due regni formati, ciascuno, da quattro divinità. Al comando dei regni ci sono due fratelli: Takan e Garkan. Il primo vince ed instaura un regno buio e terrifico. Ma una profezia, data da uno degli Dei a lui nemici, lo avverte dell’arrivo, in futuro, di un vendicatore, di un mietitore. Colui che “sul corpo avrà il sangue di chi lo ha fatto soffrire”. La storia, vera e propria, ha, come protagonista, uno schiavo di nome: Kumka. Non si conosce da chi o da cosa, insomma, il motivo per cui abbia ottenuto, o abbia e basta, i suoi poteri. Si sa soltanto che è guidato dalla vendetta. Ovviamente verso coloro che lo hanno fatto soffrire. Coloro che hanno ucciso i suoi genitori. Coloro che lo hanno reso schiavo. In realtà, alla fine, il racconto diverrà quello che è, cioè un viaggio interiore del protagonista. Arriverà a compiere la sua vendetta, ma, quello che conta, è la sua trasformazione, non soltanto fisica. Anche morale, psicologica. Il rapporto col suo e col passato in generale: “La vendetta? Non è altro che il dimenticare. Non è altro che abbattere i dubbi”. Il suo rapporto con gli Dei, con gli uomini e con quella che noi chiamiamo “società”: “Non sono un Dio. Benché meno un uomo. Ma, soprattutto, non sono un idolo”. Ma la storia non termina con l’uccisione di Takan. La storia resta qualcosa di sospeso. Con un interrogativo sulla vita. Su quello che è “lo scorrere”.
KUMKA
Sulla Terra vi erano due regni formati da otto divinità, divisi dal grande fiume Ilat. Il Regno dell’Ovest simboleggiato dalla Torre Bianca di Garkan e il Regno dell’Est simboleggiato dalla Torre Nera di Takan. Fratelli opposti, ma che fin lì, avevano governato sopportandosi.
Ogni torre era collegata a tre città fortificate e costruite dai fedeli. Sotto l’occhio di Garkan c’erano Inas della Dea Za, Ectun del Dio Ermin e Micra della Dea Ikta. Sotto quello di Takan, Iror della Dea Tuk’a, Exiclac della Dea Isiuar e Mor’uar del Dio Uialka.
Gli Dei dell’Est rubavano, ingannavano, devastavano, uccidevano. Uomini e donne, prima devoti, attraversavano il grande fiume e si rifugiavano nelle pacifiche terre dell’Ovest.
In Takan crebbe l’odio verso il fratello. Era geloso, bramoso. Voleva imporsi.
Un giorno, con tutte le armate dell’Est, attraversò il Ponte dell’Ilat, uccidendo le vedette e assediando le campagne e le roccaforti dell’Ovest. Ermin e Ikta furono i primi a morire. Poi stette a Za.
Infine, Garkan venne impiccato davanti ai suoi fedeli, mentre Takan sorrideva, guardandolo esalare l’ultimo respiro.
Da quel giorno, chiunque non si fosse convertito alla fede nella Torre Nera, sarebbe morto, i giovani e i bambini fatti schiavi.
Nacque, così, il Regno della Grande Ombra.
Ma questo non diede a Takan sicurezza. La bramosia e l’imposizione cedettero il posto al dubbio e alla paura. C’era qualcosa.
Za, Dea della Veggenza, prima di morire, ebbe una visione, Accetto la mia morte, perché non posso cambiare il destino. Stava scritto per tutti noi Dei dell’Ovest. Sapevamo che sarebbe arrivato questo momento. Ma ti dico, Takan, verrà il giorno in cui la Terra tremerà, la rabbia uscirà da un’unica gola, il dolore prenderà il sopravvento sul terrore. Vendetta, vendetta, urlerà il mietitore. Verrà per te, solo per te. Sul corpo avrà il sangue di chi lo ha fatto soffrire.
1
Cava buia.
Fiaccole e picconi.
Martelli. Ferro. Scintille.
Corvino materiale grezzo.
Polvere. Polmoni.
Alveoli incendiati.
Tosse. Sudori.
Umidità opprimente.
Massi scavati, estratti, enormi.
Nubi e montagne nere.
Funi tese. Tronchi stesi.
Ossei scheletri consunti.
Fruste su gobbe. Lacerazioni.
Sibilare. Schioccare.
Pelle spessa. Cicatrici e piaghe.
Alzati!, ordinò una guardia. Uialka avrà la tua testa, schioccò la frusta, Non c’è più posto sulla tua schiena.
Si alzò. Mascella serrata. Lo guardò… Si mosse.
Fermo!, agitò la frusta.
Ombra. Sguardo del terrore.
Due braccia. Due mani.
Collo rotto. Cranio e cervella.
2
Marcio. Fetore.
Escrementi, fango, celle.
Catene suonavano.
Voci sbraitavano.
Primati si dimenavano.
Riprese coscienza.
Braccia appese. Corpo sospeso.
Respirò… Costole incrinate.
Occhio gonfio. Faccia tumefatta.
Sbavava sangue.
Stracci zuppi di rosso.
Lividi e ferite.
Era fluido penzolante.
Svenne.
3
Sereno. Nuvole bianche. Colline verdi.
Api e farfalle. Nettare e fiori.
Casetta. Fieno e animali.
Zoccoli. Cavalli.
Un martello. Un’ascia. Una sciabola. Due mazze.
Alle spalle: spade, archi e lance.
Grida di una madre.
4
Notte febbrile. Incubo. Ricordi.
Volto violaceo. Gocce salmastre.
Vescica. Si lasciò andare.
Pavimento: miscela di sudore, piscio e sangue.
Respirazione affannosa.
Chiavi, cardini e sbarre.
Due guardie.
Questo animale si è pisciato addosso, disse uno annusandolo.
Pugni. Costato.
Bastonate. Stomaco.
Vomitò e svenne di nuovo.
5
Un uomo. Quattro soldati.
Donna. Ascia.
Tenetelo fermo!, ordinò ai seguaci.
Arti mutilati. Urla.
D’un tratto… Martello. Testa spappolata.
Non ce la facevo più. Ci mettevi troppo tempo, disse un uomo grasso.
Ho anch’io il diritto di divertirmi!, rispose la donna. Poi guardando la casa, Tu hai già avuto la tua parte.
6
Svegliati, ancora, Svegliati, fece una guardia. Ora Uialka avrà la tua testa, gli sussurrò all’orecchio.
Polsi liberi.
Abrasioni incise.
Cadde inerme.
Calcio. Mascella.
Disteso. Respirava appena.
Lo alzarono.
Ganci. Catene.
Imboccarono un tunnel.
Ondeggiava. Quasi inciampava.
Occhi chiusi. Narici schiuse.
Inspirò. Espirò.
Vene dilatarono.
Gambe. Passi.
Glutei, quadricipiti e piedi.
Camminava nuovamente.
7
Raggi: feritoie tra nubi.
Vette oscure.
Piramide. Gradoni.
In basso: massa lurida e inquieta.
Lo inginocchiarono.
Inspirava. Espirava.
Sentì una voce, Ki.
Occhi aperti.
Vestito bianco.
Pelle liscia e candida.
Lunghi capelli mori.
Si chinò. Occhi nocciola.
Lacrime su gote morbide.
Ki, disse.
Carezza. Dita gentili.
Madre, la riconobbe.
Figura triste piano, piano, si dissolse.
8
Flaccido mangiava.
Frutta e carne.
Pelle grigia.
Denti gialli.
Orecchini. Anelli.
Perle e diamanti.
Terminava un lungo discorso, Voi mi appartenete. Oggi ve lo ricorderò.
Sedette. Trono d’oro.
Pesante martello poggiato.
Fece cenno.
Teniamolo immobile, disse annuendo una guardia. Poi ordinò, Chiamate il boia!.
Maschera d’oro. Spadone lucido.
Lama alta. In posizione.
Tremò la terra.
Tuonò il cielo.
Squarci. Magma.
Ruggito abbatté il suono.
Bulbi neri. Pupille rosse.
Ganci e catene fusero.
Ossa saldate.
Traumi guariti.
Canini sporgenti.
Sbranò due guardie.
Staccò la testa al boia.
Panico. Urla.
Correre, correre.
Folla imbizzarrita.
Gente calpestata.
Vite disciolte.
Fate qualcosa!, urlò il Dio.
Soldati e guardie.
Uno schiavo.
Manico. Spadone.
Ne fece a pezzi i corpi.
Si volse al Dio.
Chi sei?, chiese l’altro tremando.
Da bravo, Uialka, prendi il martello, sorrise malizioso.
Uialka lo prese, Io sono il distruttore!.
A me sembri solo un grassone che se la fa sotto, disse lo schiavo ridendo.
Il Dio digrignò i denti, Non mi taglierai la testa!.
Stretta. Spadone disintegrato, E chi ti ha detto che voglio tagliarla.
Saltò e gli strappò la lingua.
Uialka disteso.
Bocca: fiume di sangue.
Lo schiavo brandì il martello.
Con questo spaccasti la testa a mio padre, spappolò un braccio.
Grido soffocato. Zampillio scarlatto.
Gli divaricò le gambe, Con questo violentasti mia madre.
Testicoli. Intestini.
Stomaco. Pancreas.
Fegato e reni.
Torace sbriciolato.
Cranio esploso.
Solco profondo sulla pietra.
Corpo poltiglia.
Ruggì. Scosse la terra.
Gettò il martello.
Sedette.
Viso e labbra sporchi di sangue.
Tuoni. Saette.
Piovve. Piovve intensamente.
Magma solidificò.
Squarci terrestri si chiusero.
Nero. Desolazione. Morte.
Era solo.
Osservava l’orizzonte.
Lontana Torre Nera.
Ti staccherò la testa. Ti caverò il cuore, disse.
9
Buio. Rossore sullo sfondo.
Stanza vuota. Fuoco spento.
Io ti ho creato. È vero. Contemporaneamente alla vita nasce il destino che le appartiene. Si sviluppa con lei. La speranza li tiene divisi, finché il mostro, il destino, finisce per saziarsi con la vita stessa, proferì una voce.
Aquila, lettera, becco.
Portala alla tua padrona, si sentì ordinare il rapace.
Volò.
Alla spalle: un’alta torre.
Generale!, fece la voce.
Si, mio Signore, rispose un uomo entrando.
Allerti gli uomini, disse l’altro.
Re Takan, è arrivato il momento, giusto?, chiese il Generale.
Takan non parlò.
Darò la mia vita per proteggere lei e questo forte!, esclamò l’uomo.
Il Dio gli mise una mano sulla spalla, Non chiami la morte, potrebbe sentirla e arrivare prima del dovuto. Adesso vada.
Certo mio Signore, si inchinò il Generale.
10
Notte. Ululati.
Piedi scalzi.
Vestiti strappati.
Camminava. Troncava rami.
Grande quercia.
Ramoscelli. Due pietre.
Scintille e fuoco.
Si sdraiò.
Schiena poggiata al tronco.
Vegetazione.
Rumori. Zampe.
Ringhiare. Zanne.
Occhi brillarono.
In te vedo la fame, perché la vedo in me, disse il ragazzo.
Pelo nero.
Una lupa avanzò.
Così lui continuò, Tu sei il mio riflesso, come lo sono i miei nemici. Ognuno rappresenta un dubbio che mi opacizza. La loro fine semplifica la mia vita. Colma la mia fame. Ma tu non rappresenti un dubbio. E anche se ti mostrassi il contrario, non saprei, comunque, quanto mi potresti saziare.
Ciò sentito, la lupa sedette accanto al fuoco.
Insieme si addormentarono.
11
Giorno nuvoloso.
Fresche acque.
Fiume scorreva.
Nudo si lavava.
Sciacquava stracci.
Mani a conca.
Voleva bere, quando si vide riflesso, Bisognerebbe dire quello che si pensa, senza imporre. Non credi, caro Ilat. Se lo facessimo, avremmo inteso che di fronte abbiamo specchi. Perché noi intendiamo solo noi stessi. Ma per non-imporre dovremmo dimenticare. E gli uomini non intendono neanche che la necessità è il presente.
Uscì.
Si asciugò al fuoco e riprese il cammino.
La lupa non c’era.
12
Fu sera.
Fu notte.
Schiavi e guardie.
Alberi e cortecce.
Intaccavano asce.
Tronchi: telai per barche.
Diramazione dell’Ilat.
Immissario.
Lago aperto e immenso.
Colore scuro. Intenso.
Un’isola al centro.
Sulle sponde: foresta in cerchio.
Arbusti. Foglie.
Qualcosa si mosse.
Corvi gracchiarono.
Volarono via.
Una guardia urlò, Chi va là?.
Alzò la torcia. Controllò innanzi.
Illuminò: occhi rossi, sorriso sinistro.
Sguainò la spada, Chi sei?.
Sh!, fece l’altro.
Cuori, ventri, budella.
Mani nude.
Liquido viscoso.
Liquido caldo.
Viscere dei corpi.
Stava per buttarsi in acqua… Liberaci, ti prego, disse uno schiavo.
Lui si voltò, Quelle catene ve le siete messe voi e ve le potete togliere voi, Non lo abbiamo scelto noi, Avete scelto di non-riflettere e di non-agire. Perciò siete alla ricerca di un padrone. E non trovate scuse, perché, secondo voi, il numero si impone. E voi siete in numero maggiore.
Liberaci!, urlò di nuovo disperato lo schiavo.
Lo schiavo non si ribella agli Dei, ma alle loro forme. Non c’è nessun’altro, se non noi. La Terra ti lascia camminare. Non ti obbliga a farlo. Io non vi metterò altre catene. Non sono un Dio. Benché meno un uomo. Soprattutto, non sono un idolo, così gli rispose il ragazzo.
Iniziò la traversata.
13
Occhi a fil d’acqua.
Barche e barconi attraccati.
Controlli armati.
Scrutò e attese.
Si immerse.
Nuotò sott’acqua.
Apnea senza bolle.
Silenzioso.
Emerse.
Strade fangose.
Vicoli stretti e bui.
Muri incrostati.
Edifici fatiscenti.
Case serrate.
Fedeli e schiavi rinchiusi.
Ordinario coprifuoco.
Pattuglie.
Ronde cadenzate.
Avanzò felino.
Due guardie di spalle.
Ne ruppe i colli.
Orecchio. Vibrazione.
Ascoltò ancora… Tossire.
Si voltò.
Struttura in legno abbandonata.
Isolata dal resto.
Entrò.
Muffe e crepe.
Travi marce.
Miasmi.
Lungo stanzone. Lettini.
Ronzio di mosche.
Larve biancastre.
Sono cadaveri di bambini, pensò.
Si inginocchiò.
Poggiò la mano sinistra sul pavimento.
Mostrami, disse al luogo.
Chiuse gli occhi.
Trance. Immagini.
Vide le loro vite.
Piccole e pure.
Le vide annientate.
Braccia, vene e dosi.
Cavie di esperimenti.
Piedini. Occhi azzurri.
Bambina davanti a lui.
Chi sei?, gli domandò.
Kumka. Ma puoi chiamarmi Ki, come faceva mia madre. Piccola Eral, le rispose.
Come sai il mio nome? Ti manda il mio papà?, chiese speranzosa.
Tossì forte.
Kumka la prese in collo, Adesso ti rimetto a dormire.
La distese.
Viso ossuto. Occhiaie.
Capelli unti. Sudore.
Fronte calda.
Torace: fatica nel respiro.
La coprì.
Eral gli domandò con voce piccina, Mi canteresti una canzone? Non riesco a dormire.
Kumka si sedette sul bordo letto, Certo. Le accarezzò il viso, Questa canzone me la cantava mia mamma per farmi addormentare.
Cantò piano, piano. Dolcemente.
Il suono la cullò.
Il sonno eterno l’abbracciò.
Lei spirò.
Non avete scelto voi di nascere. Vi è stato imposto tutto. Vi è stato tolto tutto. Voi non avete accettato alcun patto. Gli umani regalano i figli. Non li crescono loro. Non li appoggiano. Non danno loro consigli. Dicono ‘è sbagliato’. Dicono ‘è giusto’. Dicono ‘funziona così’. Hanno creato un mondo e lo vogliono mantenere senza il vostro consenso. Attraverso di voi, vogliono perpetuarsi. Vogliono l’immortalità. Vogliono essere Dei. Perciò li desiderano e li venerano. Ma voi, piccoli, non avete niente in comune con loro. E, ancor meno, cogli Dei stessi. Non siete la carne dei vostri genitori. Il sangue del loro sangue. Proprio perché nascete da loro, siete destinati ad essere diversi, disse Kumka, guardando le mosche ronzare sullo scheletro di una bambina.
Si alzò, Io conoscono ognuno di voi. Le vostre luci si sono mostrate al mio cuore, cara Eral. E uscendo, Spero che il lungo sonno vi trasporti in una prateria piena di fiori. Spero che lì possiate essere ingenui. Perciò bambini. Perciò saggi. Perciò semplici. Spero che possiate dimenticare l’insegnamento, l’imposizione, il non-volere, l’umano, il divino, la ragione, la religione e la contraddizione. Spero che possiate dimenticare anche le mie parole.
14
Mia Signora, mia Signora!, esclamò ansimando un uomo per la corsa.
Grossa scrivania.
Libri. Appunti.
Fogli sparsi. Disegni.
Liquidi e misture.
Mortai, provette.
Fiale e boccette.
Alambicco.
Sì?, gli domandò la Dea indaffarata.
Abbiamo trovato due morti giù al porto e la sezione lavori non è tornata stanotte, le disse l’altro preoccupato.
Raduni gli uomini, ordinò Isiuar pacatamente.
Perché mia Signora?, le chiese apprensivo l’uomo.
La Dea lo guardò, Esegui.
Subito, si inchinò lui tremando.
Isiuar aprì una finestra.
Gabbia. Aquila.
Ala, siringa, iniezione.
Sacchetto, laccio e zampa.
Portale al Re, sussurrò al rapace. Poi, appena l’animale si allontanò in volo, Ti ho catturato ed educato io. Tu dipendi da me. Dipenderai per sempre da me. Questo sarà il tuo ultimo viaggio. Carissimo, non conosci altro, se non quello che io ti ho imposto. Perciò è inutile che tu viva senza la mia sussistenza.
15
Alba incerta.
Nebbia densa.
Palazzo grigio.
Gigantesco portone.
Scaloni.
Lastroni di marmo.
Grande piazza.
Linee serrate.
Scudi piantati al suolo.
Lance pronte.
Nebbia si diradò.
Sagoma si rivelò.
Camminava… Camminava.
A pochi metri da loro fermò i passi.
State pronti!, preparò i propri uomini un generale.
Kumka si inginocchiò.
Palmi premettero a terra.
Riscaldava la pelle.
Fumi. Linee rossastre.
Avambracci marchiati.
Sisma. Percussione.
Ruggito avvolse la Terra.
Occhi rossi.
Canini sporgenti.
Soldati tremarono.
Generale senza voce.
Kumka non si mosse.
Era in attesa.
Portone si aprì.
Donna pallida.
Capelli rossi.
Armatura nera.
Doppia ascia sulla schiena.
Cos’è questa codardia? È uno soltanto e voi siete molti, parlò Isiuar ai soldati.
Loro restarono esitanti.
Non credete più nella parola della vostra Dea? Non avete fede in me?, chiese spazientita.
Kumka intervenne, Non c’è alcuna fede. Per loro esistono paura e dipendenza.
Isiuar allora disse, Ci penserò io a te.
Sfoderò entrambe le asce.
Scese gli scaloni.
Passò in mezzo ai soldati.
Sono più veloce, più forte, più sveglia di Uialka. Non sarà un gioco, ragazzo, lo sfidò Isiuar.
Per il momento sei solo parole. Proprio come lui, Dea, le rispose Kumka.
Lame fluorescenti volteggiavano.
Creavano vortici.
Occhi viola.
Dunque passiamo ai fatti, gli disse la Dea.
Due asce fendettero l’aria.
Curvarono.
Kumka saltò.
Tornarono da Isiuar.
La Dea corse contro il ragazzo.
Iniziò lo scontro.
Aria si muoveva.
Colpi, onde, suono.
Tuonavano cielo e terra.
Lui la disarmò d’un’ascia.
Lei colpì con l’altra.
Mani bloccarono il metallo.
Centimetri. Pochi dalla fronte.
Isiuar premette con tutta la sua forza.
Marmo si spezzò.
Piedi affondarono nelle lastre.
Arma disintegrata.
Boato. Polveri.
Dea incredula.
Kumka sferrò un pugno.
Isiuar si schiantò al suolo.
Il ragazzo la raggiunse.
Caviglia. Pugnale.
Taglio sul polpaccio.
La Dea si rimise in piedi dolorante, Cos’hai? Ti ho fatto male?.
Ferita. Ramificazioni verdi.
Kumka barcollò.
Cadde.
Isiuar prese l’ascia rimasta integra, Ti avevo detto che non era un gioco, ragazzo. Poi la alzò, Adesso lo abbiamo concluso.
Kumka le tolse l’arma.
Affondo. Mano.
Grida.
No, io l’ho appena cominciato, le disse il ragazzo.
Come… Come hai fatto? Il veleno era il più potente che avessi, fece Isiuar stringendosi il polso.
Il calore. La mia sostanza, le rispose Kumka.
La Dea tentò la fuga.
Lui balzò e le mozzò le gambe.
Si chinò su di lei, Dicesti che questa fosse ‘un’arte’. Non vorrai lasciare che l’artista eviti di finire la sua opera?.
Afferrò un arto.
No, ti prego. No!, urlò Isiuar.
Staccò i femori e le braccia dalle giunture.
Sangue. Schizzi.
Curioso. Paziente.
Osservava quel fluire.
La Dea non respirò più.
Si alzò.
Diede uno sguardo ai soldati.
Restò immobile qualche secondo.
Poi gettò l’ascia e se ne andò.
16
Guardie, soldati, credenti e schiavi.
Dea morta. Visi spenti.
Lamenti, pianti, rabbia e paure.
Kumka emerse.
Dalla sponda ascoltò.
Non ho intaccato il vostro ordine, ma l’eccesso. I ricordi non servono per non-dimenticare. I ricordi ci dicono di andare avanti, senza attaccarci ad un perpetuo presente. Ma voi, dopo tutto, non ne volete la necessità. Come ho detto: non ho intaccato il vostro ordine, disse il ragazzo.
Scomparve nella fitta foresta.
17
Gelo. Neve.
Bufera.
Mura. Forte.
Imponente Torre Nera.
Buio salone.
Spifferi. Finestra aperta.
Vetrate senza decorazione.
Lunga tavola.
Intarsiata e lucida.
Un Calice. Una Bottiglia.
Dio solo. Seduto.
Ai piedi: un’aquila senza vita.
Mio Signore, mi ha fatto chiamare?, entrò il Generale.
La battaglia è vicina, fece Takan. Bevve, Non manca molto al suo arrivo.
Iror?, chiese il Generale.
Iror…Iror. Lasci stare, rispose il Dio.
Come desidera, disse l’uomo inchinandosi.
Ah! Un’altra cosa, lo fermò Takan. Poi tirò fuori dal taschino una boccetta, Ho chiesto a Isiuar di prepararle questa. La usi con intelligenza, durante la battaglia.
L’altro la prese, Lo farò. Poi si congedò, Grazie mio Re.
Rimasto solo Takan parlò, Il destino irrompe. Tutti noi ne conosciamo la destinazione. Ma cos’è che mi tiene ancora aggrappato? Cos’è che mi fa apparire disgustosa l’accettazione della fine palese? Cos’è che desta in me l’ira? La speranza. Sì, la più grande nemica della vita. Colei che innesta le azioni. Colei che ne rende veri i contrasti, le ambivalenze. Colei che la inganna. La consigliera maligna. Colei che la divide a metà. Colei che non vuole farla combaciare col destino. Colei che non vuole rendere anima e corpo la sostanza che è. Colei che mi ha reso e mi rende cieco. Per quanto manterrò quest’equilibrio?.
Polverizzò la carcassa della bestia.
18
Luna piena soffocata.
Firmamento.
Niente stelle.
Suolo inzuppato.
Spugna.
Piedi pestavano.
Appiccicume. Melma.
Ilat ristretto.
Rive sassose.
Brezza fredda.
Sferzate sulla pelle.
Rami piegati.
Foglie penzolanti.
Salice piangente.
Kumka si stese.
Chiuse gli occhi.
Il sogno lo avvolse.
19
Destriero nero.
Dio.
Corona. Vestito regale.
Portate fuori la donna e bruciate tutto, diede ordine.
Soldati. Torce. Incendio.
Donna strattonata.
Occhio livido.
Naso rotto.
Vesti strappate.
Seno nudo ricoperto di sangue.
Madre!, urlò un bambino.
Chi non si inchina davanti a me, ha soltanto due scelte: morire velocemente o morire lentamente. In ogni caso la morte lo attende. Lasciate che veda, disse il Dio. Poi, guardando sempre il bambino, Osserva cosa ti aspetta, perché tu sei condannato, sì, ma alla sorte più lenta.
Tenetela ben ferma!, esclamò Uilka.
Grande Dea Tuk’a è arrivato il suo momento. Dimostri fedeltà al Re, fece Isiuar.
Passi.
Sciabola.
Manico. Mani.
Madre!, gridò il bambino.
Lama tremava.
Occhi lucidi.
Lacrime.
Tuk’a si voltò verso il Re, Io non darò mai sfogo al tuo sporco ego, Takan.
Mazza. Lancio.
Faccia spaccata.
Dea scagliata a terra.
Priva di sensi.
Beh! Visto che sono sporco, altra sporcizia non farà alcuna differenza, le rispose Takan.
Scese da cavallo.
Prese la sciabola.
Madre!, gridò ancora il bambino.
Non piangere, gli disse la donna con voce calma, Il tuo cuore saprà sempre dove mi trovo. Sarò al tuo fianco finché lo vorrai.
Sorrise serena.
Sulla sua testa calò un fendente.
20
Grida soffocate.
Strazio.
Occhi sbarrati.
Bulbi umidi.
Cuore: pulsazioni accelerate.
Mano sul petto.
Respira, disse una voce femminile.
Madre!, esclamò lui.
Figura candida gli carezzò la guancia, Non piangere. Sarò al tuo fianco finché lo vorrai.
Piango, perché ho ucciso molte persone. Il magma ne ha disciolto le vite. Non mi avevano fatto niente. Mi sento un Dio. Mi sento un uomo. Mi sento colpevole, le confessò Kumka.
Se tu remi fra le rapide di un torrente e affoghi, non è colpa del torrente. E nemmeno tua. Lui non riflette al di fuori di sé. Tu al di fuori di te. Come può esserci colpa, se tu non sei lui e lui non è te. Come può esserci danno. Entrambi scorrete, ma non imponete. Ki, tu non hai imposto niente, spiegò lei.
Ma la morte?, chiese lui.
La morte è la manifestazione fisica del principiare perpetuo. La manifestazione della vita stessa. Il dono più bello della Terra che non ci fa cogliere l’esistenza, ma ci espone una funzione che è una semplificazione da intuire e praticare. Poiché l’esistenza stessa è un semplice fluire incerto. Essa è incertezza. La grandezza del tuo Universo, disse sua madre.
C’erano anche bambini. Loro non possono aver vissuto, fece il ragazzo.
La morte è fine. Fine è infinito. Essa è soltanto un lungo sonno. Un’attesa. Un prolungamento. Un ricongiungimento. A loro è stato imposto, ma non avevano pericolo, presunzione ed eccesso premuti a soffocare le loro sostanze. Dunque, non puoi averli uccisi. Non puoi aver fatto loro del male. In quanto non vi era alcuna contraddizione umana o divina in loro. È giusto che il tuo cuore soffra? Sì, perché ti rende sensibile. Ascoltatore. Così loro non sono morti. Così loro sono parte di te. Il passo successivo è amarli, gli asciugò le lacrime.
Eral?, sussurrò lui.
Lei fa parte di te. Io faccio parte di te. I ricordi non servono per ancorarsi, ma sono la spinta per andare avanti, sorrise la donna.
Allora, perché voglio vendetta?, domandò Kumka.
Solo la fine porta l’amore e l’amore porta l’inizio, affermò lei.
Madre… Io…, stava per parlare il ragazzo.
Sh! I dubbi opacizzano e tu vuoi brillare. Tornerai al principio. Dimenticherai, lo abbracciò forte. E poi guardandolo negli occhi, Adesso dormi. La notte è ancora lunga e tu hai bisogno di riposo.
Lui si addormentò, senza più incubi.
21
Pianura.
Strada fangosa.
Acquitrini. Pozze.
Muraglia distrutta.
Case disfatte.
Mercato.
Vecchie bancarelle.
Voci. Risate.
Chiacchiericcio e banditori.
Merci. Giochi.
Cibo. Odori.
D’un tratto… Persone svanite.
Città silente.
Palazzo.
Pareti consumate.
Sala.
Pavimento lucido.
Ai lati: due file di colonne.
Torce in metallo.
Fuochi accesi.
Porta d’oro si spalancò.
Donna apparve.
Gli si inginocchiò dinanzi.
Abbassò lo sguardo.
Porse una sciabola, Fai ciò per cui sei venuto.
Kumka la prese.
Collo. Scintillio del tagliente.
Mano fermò braccio.
Un’altra voce femminile gli sussurrò all’orecchio, Lei non ha fatto niente.
Lui abbassò l’arma.
Si chinò e gliela riconsegnò.
Lei lo guardò stupita, Tu… I tuoi occhi. Ricordo i tuoi occhi.
Mi dispiace per il tuo popolo, Dea Tuk’a, fece il ragazzo.
Come sai cosa sia successo qui?, chiese la Dea.
La tua gente me lo ha mostrato, rispose Kumka.
Tuk’a si incupì, Sono rimasta ferma a guardare, mentre loro venivano polverizzati da Takan.
La solitudine non è unità matematica schiacciata e anomala. La rabbia non è il limite, ma l’errore. Non confonderti. Sappi definire. Dimenticare non è aborrire se stessi. L’immaginario è la combinazione di ingredienti certi. L’amore non è legame. Amare è conoscere, disse il ragazzo.
Perché dici questo?, cercò di capire lei.
Se tu riflettessi, potresti crearti un certo pensiero. Infine, dare vita alla tua interpretazione. Questa è la mia: ‘Noi non vogliamo soffrire’, spiegò lui. Poi le sorrise, Tu non mi hai fatto niente.
Tuk’a pianse.
Kumka con un dito le scostò i capelli, Tu sarai perfetta.
Cosa?, rimase colpita Tuk’a.
Guerra, uguaglianza e contraddittorietà saranno i sintomi perfetti dell’equilibrio che non ho intaccato. In te la pietà, cioè il loro monito. La carità, cioè il loro strumento. Ecco perché sei perfetta. Tu perfezioni la funzione. La paura della Morte. La ricerca della sicurezza. Il vivere a lungo che genera sofferenza, fece il ragazzo soddisfatto.
Io…, restò attonita la Dea.
Schiavi, fedeli. Generali, ufficiali, soldati. Tu potrai importi. Imporre. Governare. Manterrai i ceti, le caste. Non cambierai niente: inganno nell’onore, abbraccio nella violenza. Potresti approfondire schemi: quelli di Uialka, di Isiuar, di Takan. Quelli tuoi. Quelli degli Dei dell’Ovest, le disse alzandosi.
Aspetta, aspetta!, lo rincorse la Dea.
Lui la guardò, Non impormi e non farmi idolo. Vedi di non sfiorare il limite. Io non sono libero, perché non sottraggo niente.
Tuk’a tacque.
Kumka uscì dal palazzo e lasciò la città.
22
Pendii acuminati.
Gole profonde.
Ghiacciaio. Crepacci.
Busto nudo.
Scalzo.
Pantaloni strappati.
Sangue secco incrostava le membra.
Avanzava.
Neve alta.
Cecità dalle raffiche gelide.
Intravide una fessura.
Vi si diresse.
Sgusciò all’interno.
Cavità stretta.
Lì giacque.
Noi agiamo. Dunque, perché dobbiamo disconoscere noi stessi con pietà e sensi di colpa? No, gli atti fanno esistere. Non c’era niente prima. Non ci sarà niente dopo. Ragioniamo. Abbiamo fede. Passioni. Violenze. Non si ascolta. Non si prova. Non si sente. Come puoi descriverti a te stesso? Non vi è alcuna difficoltà nella vita. Altrimenti, non cercheremmo di facilitarla: sia col potere che con la sofferenza. Ci stanno bene entrambe. Ci accontentiamo di entrambe. Proprio nella sua composizione, la socialità mostra la sua falla. Un complesso che cerca la semplicità. Un “tanti” che vuole l’uno. Perciò, se non accettassimo la nostra solitudine, accetteremmo comunque la solitudine della comunità. Io voglio eliminare da me stesso: il dubbio, la sofferenza, l’imposizione..., Kumka cedette al sonno.
23
Montagna, vetta, dirupo.
Torre Nera sul ciglio.
Leggero biancore poggiava su costruzioni.
Soffi fischiavano.
Arco. Cancello. Inferriate.
Muri alti.
Dentro: alloggi e case.
Esplosione.
Pietre enormi saltarono in aria.
Vedette scaraventate.
Schiacciate.
Suonarono dei corni.
Allarme. Invasione.
Richiamo alla difesa.
Lui procedette.
Balzava sui tetti.
Atterrò.
Grande spiazzo.
Davanti: la Torre.
Questa città è la nostra vita. Noi viviamo per lei, con lei, attraverso di lei. Se cadesse, cadremmo anche noi. Soldati, in formazione!, urlò il Generale alle sue legioni. Poi aggiunse, Non abbiate timore. Siamo i benedetti del nostro Signore: Re Takan. Colui che…, venne interrotto da Kumka, Colui che tutto rubò. Colui che tutto impose, annusò l’ambiente attorno a sé, Sento il suo odore. Sento la vostra paura di esser soli, la vostra paura dell’uno. Il brivido che vi assale, non è la temperatura glaciale, ma il dubbio. Non conoscete voi stessi e pensate di conoscere gli altri? Se altri ci sono. Avete il sentore del pericolo. Ma come può esserci pericolo, se tutto scorre. Come può esserci pericolo, se tutto è solo presente. Come potreste morire, se tutto è vita. Siete queste mura. Siete questo luogo. Il coraggio non è altro che la non valutazione del passato e del futuro. Dunque, di per sé, non esiste, perché presuppone la resistenza e l’esistenza dei due tempi. Il coraggio e la morte non ci sono. La vita e il presente sì. Ma non è immortalità. Questo è inizio. Perciò non vi è necessità, morale, obbligo, imposizione, contraddizione, ripetizione, lungimiranza, infinito, finito, paura, coraggio, bene e male, ragione e fede, comunione, solitudine, ricordi, dolore, sofferenza, felicità. Non vi è il niente. Nemmeno il tutto. C’è la sensazione. C’è il sentire.
Il Generale gli rispose, E tu pensi di portare le mie legioni a disertare? Vorresti, codardo, evitare che ti attacchino? Loro obbediscono al Re. Obbediscono ai miei ordini.
Kumka non disse niente.
Soldati attaccarono.
Lui si inginocchiò.
Aprì le braccia.
Le chiuse.
Mani batterono.
Onda d’urto.
Corpi disintegrati.
Minuscole particelle.
Il Generale si nascose.
Tirò fuori la boccetta.
Bevve.
Muscoli crebbero.
Stazza.
Pelle gialla.
Occhi verdi.
Umore di bestia.
Kumka lo guardò.
Restò in silenzio.
La cosa lo colpì.
Lui sfrecciò.
Edificio. Muro.
Schianto.
Una voce grossa gli fece, Chi ti credi di essere ragazzo! Pensavi che fosse facile uccidere il Re? Pensavi di annientare tutti con le tue inutili parole?.
Braccia nere.
Avambracci: linee rossastre marchiate.
Occhi rossi.
Canini sporgenti.
Kumka emerse dalle macerie, Io non credo. Io non penso. Tutto, per me, è facile. E sempre, per me, si può parlare.
L’altro stava per avventarsi su di lui.
Pugno. Stomaco.
Bocca vomitò sangue.
Gambe tremarono.
Il ragazzo lo fissò, Tranquillo. Lascerò vivere chi si trova nelle segrete. Nessuno di loro mi ha fatto soffrire. Tua moglie e i tuoi figli perpetueranno te e le tue imposizioni. Non disperare. L’abitudine e la speranza resteranno.
L’altro sferrò un diretto.
Urto. Spacco. Ossa.
Palmo: Kumka aveva bloccato l’offesa.
Grida di bestia.
Arto floscio raschiava la terra.
Il ragazzo saltò.
Schiena. Mano.
Spina dorsale staccata.
Corpo stramazzò.
D’un tratto… Passi.
Pelle grigia.
Armatura scura.
Corona.
Due mazze.
Applaudiva, Bravo, bravo! Sei stato…. Kumka lo abbatté contro la torre.
Takan si rialzò.
Si scrollò la polvere, Bene, bene. Questo sarebbe il saluto al tuo Re? Non credi di dovermi ringraziare? Se io non avessi fatto quello che ho fatto a te, tu non saresti qui.
Non esiste il tempo. Dunque, non esiste alcun destino, rispose il ragazzo.
Il Dio rise, Menomale che Za non è qui ad ascoltare le tue parole. Si sarebbe fatta una bella risata pure lei.
Kumka gli disse, Gli Dei sono stati voluti dagli uomini. Perciò restate nel giogo delle abitudini a loro affini. Non siete nulla di più.
Allora tu cosa saresti?, chiese con sfida Takan.
Una chimera, diede risposta lui.
L’altro sfoderò le sue mazze, Sei destinato a perire.
Io inizio e basta, fece il ragazzo.
Takan attaccò.
Assestò una mazzata.
Costole. Arma troncata.
Kumka calciò.
Gamba spezzata.
Prese l’altra mazza.
La lanciò lontano.
Perché non mi finisci?, chiese il Dio trattenendo il dolore.
Vedi quel gigante? Era il tuo generale. Strano che un uomo abbia acquisito stazza e forza del genere. Voglio vedere fin dove ti spingerai. Voglio vedere fin dove arriverà il tuo potere. La speranza è l’ultima a morire, dite voi, si espresse Kumka.
Ero certo che avresti detto così, disse Takan.
Come ne eri certo?, fece incuriosito il ragazzo.
La mia oscurità avvolge tutto. Vede tutto. Quindi, io so tutto. Non mi sfugge niente. Ogni cosa è sotto il mio controllo, sogghignò l’altro.
Se io scorro, potrò soltanto scorrere. E anche se tu devi il corso, o lo blocchi, comunque scorrerò. Il passato non è un’ancora. Non è la salvezza. Il passato non c’è. Neanche la conoscenza. Ci siamo noi. I nostri atti. I nostri riflessi sull’azione. E se, come un fiume, arrivassi al mare, certamente non terminerebbe lì il mio cammino. Resterei me. Avrei altre riflessioni e azioni da compiere. Tu credi che tutto sia ripetitivo, ma se qualcosa si ripete, è solo per un fraintendimento dei ricordi. Essi non ti avvisano del pericolo attraverso l’esperienza, essi ti dicono che non sei andato oltre. Che il tuo fluire vorrebbe riprovare quell’accadimento. Infatti, vero, ci sono ripetizioni ed esperienze. Poi arriva la sofferenza, arriva il potere. La tua volontà vorrebbe fluire, ma tu resti lì. Le sostanze nutritive si poggiano in un punto. Alla fine muori, poiché il resto del tuo letto si secca e tu, tanto ingordo, soffochi sotto te stesso. Ecco il motivo per cui la morte appare come una cessazione. Quello che non viene preso a interesse, è che tutto termina dove inizia. Siamo soli. Non unici. Essere unico, presuppone che ci siano altri oltre a noi, come noi, dai quali noi ci ribelliamo. Non c’è alcuna ribellione, perché non c’è alcuna imposizione. Perciò i figli non hanno nulla in comune coi padri. Perciò l’amore vede due e non uno più uno. Non ci sono due metà, ma due individualità, parlò Kumka.
Takan bevve da una boccetta, Volevi vedere fin dove mi spingevo? Adesso ne avrai un assaggio.
Cielo.
Vortice oscuro lo avvolse.
Occhi neri.
Membra forti.
Vortice svanì.
Aura cupa contornò la figura.
Kumka restò impassibile.
Ricordo tua madre. Ricordo quando i miei soldati ci si sono divertiti. Ricordo quando le ho tagliato la testa. Ricordo anche tuo padre. Isuar affettarlo. Uialka spappolargli la testa. Ricordo te che piangevi disperato. ‘Madre, madre!’, urlavi. Inutile schiavo, disse il Dio.
Rapido.
Feroce.
Prese il ragazzo per un braccio.
Lo scaraventò a terra.
Colpì con foga.
Colpì ripetutamente.
Mazza rotta.
Gliela conficcò nello stomaco.
Lo afferrò al collo.
Lo alzò, Non parli più? Eppure erano così belle le frasi che uscivano dalla tua bocca. Quasi ammalianti. Spinse l’arma giù nella carne, Allora? Hai perso davvero la parola? Non dici niente.
Mani bruciarono.
Il Dio lasciò la presa.
Arma si fuse.
Ferita guarì.
Tremore.
Scosse.
Sisma.
Spasmo dalla gola.
Alla fine… Ruggito sortì.
Torre Nera crollò.
Precipitò nel vuoto.
Corpo nero.
Occhi rossi.
Canini sporgenti.
Viso animale.
Ruggì, ruggì ancora.
Qualcosa dal nucleo della Terra.
Eruzione.
Boato.
Aura del fuoco contornò il corpo.
Takan sentì il terrore.
Invadeva la sua sostanza.
Kumka gli parlò, Voglio ridarti indietro ciò che tu mi hai donato, senza che io te lo chiedessi. La rabbia è l’ultima cosa che voglio eliminare da me.
Il Dio non ci stette.
Mani. Luce.
Energia concentrò.
Raggi scagliò.
Fiamme li assorbirono.
Takan ne scagliò ancora.
Ancora, ancora, ancora.
Kumka lo colpì.
Volto bruciava.
Guancia si sciolse.
Takan urlò.
Contrattaccò.
L’altro avanzava.
Lui arretrava.
Il Dio inciampò.
Corona scivolò dalla sua testa.
Il ragazzo si chinò, Mi sono sempre detto, guardando la Torre Nera, che ti avrei staccato la testa e cavato il cuore. Ma tranquillo, i tuoi fedeli non vedranno. E, come ho detto al tuo generale, loro non mi hanno fatto soffrire. Dunque, sopravvivranno. Li ho protetti dall’eruzione. Dal magma che scorre. Quando avrò finito con te, farò piovere e richiudere il cratere.
Za mi avvertì. Sarebbe arrivato qualcuno ad uccidermi, disse Takan lacrimando.
Ti sei legato ad un sentimento e lo hai voluto imporre, infilò la mano nel torace del Dio, Adesso hai capito che non dovevi sperare. La speranza ha creato la rabbia che albergava in te. La competizione. La comparazione. Tu sei unico.
L'altro pianse, Anche se mi uccidi, hai deciso di non intaccare niente. Ora ho capito. Tu hai rivolto le tue attenzioni solo ai dubbi. Hai voluto vincere il dolore. Hai voluto vincere la rabbia. Hai voluto vincere la sofferenza. Hai voluto vincere l’imposizione. Lo hai fatto, ma contro te stesso, perché noi siamo stati te. Tu hai trovato l’equilibrio. Eppure non hai intaccato il nostro. Ti chiedo perdono per tutto quello che ti ho procurato e ti ringrazio di quello che hai fatto al mio regno. Non voglio che tu mi risparmi. Finisci ciò che hai iniziato.
Dita premettero.
Afferrarono.
Muscolo involontario.
Muscolo palpitante.
Lo strinse nel pugno.
Cuore si liquefece.
Si rimise in piedi.
Mani. Forza.
Staccò la testa.
Ruggito abbatté il suono.
Osservò il cielo.
Nubi. Pioggia.
Magma sfrigolava.
Fermava l’avanzata.
Cratere si chiuse.
Fece rotolare lontano la testa.
Osservò quello che restava del Re e disse, Grazie. Grazie a voi. Perché adesso ho dimenticato.
Sorrise.
Chiuse gli occhi.
Respirò.
24
Cinguettii.
Sole.
Fasci luminosi.
Nubi si diradarono.
Sereno. Campagna.
Erba verde.
Fiori. Nettare.
Api tornarono.
Farfalle.
Edere cresciute.
Resti di una casetta.
Kumka sorrideva, Quella che sento, non è nostalgia. Ma un pizzicore al cuore. Forse, che sia sollievo? No. Soddisfazione? No. Cos’è questa sensazione che mi pervade? Mi pare quasi...., una mano gli si poggiò sulla spalla, Dimenticare non è lasciar andare. Non è concentrarsi su altro. Tu scorri. La sensazione è di un perfetto tutt’uno. Di un sorriso leggero, ma non di scherno, non di ilarità, non di malignità. Senza alcun pensiero. Senza alcun giudizio. Parlerai senza dare valore alle tue parole. Agirai senza cause e conseguenze. Rifletterai e sentirai.
Kumka si voltò, Madre, io voglio continuare il cammino. Voglio sentire.
La donna lo abbracciò.
Gli diede un bacio sulla fronte, Vai pure figlio mio.
Apparve un uomo, Figliolo.
Padre, rispose il ragazzo.
Abbracciò pure lui.
Kumka li guardò entrambi felice, Adesso posso andare. Poi aggiunse, mentre si allontanava, Vi amerò per sempre. Siete parte del mio cuore.
25
Orizzonte.
Tramonto rosa.
Immenso mare.
Mare calmo.
Spiaggia.
Gabbiani svolazzavano.
Si lanciavano nelle acque.
Brezza calda.
Membra. Tepore.
Kumka disse all’Ilat, alla sua foce, Qualcosa resta, ma, nel suo restare, ti trascina. Ti fa fluire. Ti rende flessibile. Aumenta le fibre del tuo ramo. La forza esiste, ma, per esistere, avrebbe una contrapposizione. Forse non fluiamo. Forse siamo già. Eppure sento questa spinta. Questa volontà che mi riempie. E proprio perché mi riempie, mi disgrega. Sempre più fibroso. Sempre con maggiori-minori fibre. Fibre grandi. Fibre piccole. Che lo scorrere sia un allungarsi e un ciclo? Io voglio sentire.
Zattera.
Remo di fortuna.
Salpò verso il dunque, verso il nulla.
Manuel Cordero, nato a Firenze il 22 febbraio 1995. Vive a Cerreto Guidi nella campagna fiorentina. Giornalista sportivo e scrittore di brevi e brevissimi racconti.