L’INOPEROSO di Marta Spizzichino
L’inoperoso - Marta Spizzichino
Indecisa su quale libro leggere e scettica sull’iniziarne di nuovi, cedo alla tentazione di immergermi per la quarta volta ne Il sistema periodico di Primo Levi. Non per stoica rassegnazione nei confronti di una letteratura deludente né per diffidenza nei confronti delle novità, ma per una propensione umana a seguire vie già battute e rifugiarmi in un porto lieto, sicuro. Il sistema periodico è un libro a me caro, forse il più prezioso insieme a pochi altri. Una volta l’anno mi dedico a lui, recitandone ad alta voce alcuni capitoli, da sola o in compagnia. Lo leggo ora, che mi cimento con un esame di chimica all’università e sono alle prese con bilanciamenti, proprietà dei composti e strutture atomiche. Quegli elementi che mi sembravano durante le prime letture espedienti narrativi utili all’autore per raccontare la propria biografia, hanno ora per me consistenza scientifica. Ne comprendo finalmente i comportamenti, le relazioni con gli elementi vicini e lontani, la posizione nella tavola periodica.
Primo Levi ha avuto il grande pregio di far dialogare le lettere con le molecole, di cucirle assieme e procedere con rigore simil scientifico nella stesura dei racconti. Ogni parola occupa un posto preciso, ogni lettera è una pietra che gode di valore aggiunto per il solo fatto di essere lì, nel luogo cui appartiene. Ogni riga è frutto di un taglio e cucito che non lascia segni, regalando al lettore l’opportunità di godere di un’opera ben scritta, senza patire il lavoro che c’è dietro.
La semplicità è l’obiettivo cui gli scrittori dovrebbero aspirare e questo li rende simili ai matematici che cercano nelle equazioni un’armonia elegante e sincera.
Argon, il primo capitolo del libro, descrive i parenti come poco reattivi, inoperosi, chiusi in una bolla, con una lingua propria – il giudaico-piemontese – che fa dialogare le “magne” e i “barba”, rispettivamente zie e zii, con un lessico familiare curioso e colorito, parlata scettica e bonaria (…) ricca di affettuosa e dignitosa confidenza con Dio, Nõssignõr, Adonai Eloéno, Cadòss Barõkhú. Savi patriarchi tabaccosi e domestiche regine della casa, che pure si autodefinivano orgogliosamente “l pòpõl d’Israél”.
Gergo specialistico usato non solo in famiglia ma anche in bottega, tra padroni e commessi, e diramato in altri ambiti, parlato da gente che con l’ebraismo pare non avere nulla a che fare. C’è chi impiega l’espressione “‘na veste a kínim” per indicare “un vestito a puntini” (i kiním sono i pidocchi, la terza delle dieci piaghe d’Egitto, enumerate e cantate nel rituale della Pasqua ebraica) e rimane stupita quando scopre casualmente che usa parole ebraiche.
Il linguaggio di Levi è privo di orpelli, limpido, mai ridondante. Aggettivi e avverbi sono impiegati in modo opportuno, prudente. La frase poggia su fondamenta salde e procede con rigore geometrico.
Lo scrittore ha il gravoso compito di intrattenersi con le parole così come il chimico con le formule, e per entrambi i lavori si richiedono chiarezza e precisione.
Intriso di cultura classica, illuminista e positivista, Levi indaga la lingua, con i suoi vezzi, regole ed eccezioni. Ne osserva i comportamenti, così come fa con la materia. Nel capitolo Idrogeno scrive:
“(…) per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo (…) Può forse un filosofo chiarire come avviene il volo dei moscerini? Può un esercito spiegare di cosa si compongono i banchi sui quali si studia, la materia di cui si compone il sole, il volo vano dei pappi a giugno? Questa era una vergogna e un abominio, bisognava trovare un’altra strada”.
Questa strada sarebbe stata la chimica, grimaldello di un universo confuso e sconnesso. La materia è camaleontica e bizzarra, si diverte distribuendo carbonio qui e lì, nei diamanti, nella grafite, nel Sole, le stelle e nell’atmosfera della maggior parte dei pianeti della nostra galassia. Si ingegna nel disporre il fosforo nella salvia, la chelidonia e il prezzemolo; l’azoto nel DNA, nell’ammoniaca, nell’acido urico e nell’allossana destinata ad abbellire sotto forma di rossetto le labbra delle dame di città. Fosse scaturita questa dagli escrementi delle galline o dei pitoni, era un pensiero che non lo turbava neanche un poco. Il mestiere di chimico insegna a superare, anzi a ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima. L’azoto è azoto, passa mirabilmente dall’aria alle piante, da queste agli animali, e dagli animali a noi; quando nel nostro corpo la sua funzione è esaurita, lo eliminiamo, ma sempre azoto resta, asettico e innocente.
La sostanza non ha etica né morale, siamo noi ad attribuirle giudizi di valore. L’idea di ricavare un cosmetico da un escremento, ossia aurum de stercore, è nobile e suggestiva, una sorta di ritorno alle origini primordiali, agli alchimisti del Seicento che si dilettavano ricavando il fosforo dall’urina. Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco, e il pascolo dal letame e “laetamen” non vuol dire forse “allietamento”? Così era stato per Virgilio, così tornava ad essere per Levi, che all’acido urico di rettili e galline chiedeva trucchi e consigli di bellezza.
Marta Spizzichino, classe ’95, romana da generazioni. Laureata in Filosofia studia ora Biotecnologie ambientali. Escursionista entusiasta, lettrice appassionata, convinta europeista. Cura una rubrica di libri sul giornale della comunità ebraica di Roma SHALOM.it. Ama la lingua e la cultura austro-tedesca, il Bretzel al burro, Primo Levi e Stefan Zweig.