IN DILIGENZA CON KIERKEGAARD E JEAN PAUL by Dario Borso

 

In occasione dell'uscita per la casa editrice Del Vecchio del Viaggio a Flätz di Jean Paul, postiamo un breve saggio che il traduttore e curatore Dario Borso ha scritto appositamente per noi.

Confessando al suo taccuino «Io scrivo solo note a piè di pagina», l’onnivoro Bobi Bazlen aveva forse in mente le Prefazioni (1844) di Søren Kierkegaard, libretto composto di otto prefazioni ad altrettanti libri inesistenti precedute a loro volta da una prefazione. Certo è che il danese, scrivendolo, aveva in mente Jean Paul, del quale ammirava tutto ma supremamente il Viaggio a Flätz (1808), racconto lungo dove le note a piè pagina erano sparse volutamente a casaccio.

Il Viaggio già gli aveva ispirato l’anno prima un episodio esilarante dell’unico suo romanzo, La ripetizione, centrato sulla questione: «Una cosa guadagna o perde a essere ripetuta?». All’autodiegetico protagonista, lo psicologo Constantin Constantius, non restava che provare, e difatti:

Riferirò brevemente di un viaggio esplorativo che ho intrapreso col fine di saggiare la possibilità e il significato della ripetizione. A insaputa di tutti (perché appunto le chiacchiere più svariate non mi rendessero inetto all’esperimento e in altro modo stufo della ripetizione) andai col traghetto a Straslund e fissai un posto nella diligenza rapida per Berlino. 

C’è disparità di vedute tra i dotti su quale sia in una diligenza il posto più comodo. La mia opinione è la seguente: sono tutti quanti infami. 

La volta prima ne avevo uno d’angolo in fondo alla vettura (c’è chi lo ritiene un terno al lotto), e così per trentasei ore fui sballottato coi miei attigui a un punto tale, che giunto in Amburgo aveo perduto non solo le facoltà superiori, ma pure gli arti inferiori. Durante quel giorno e mezzo noi sei di dentro agglutinammo tanto bene in un corpo solo, che io potei intuire come mai gli abitanti di Mol, dopo avere seduto a lungo insieme, non sapessero riconoscere le loro proprie gambe. 

Nella speranza di divenire almeno membro di un corpo minore, scelsi un posto nel coupé. Era un cambiamento. Tuttavia si ripeté ogni cosa. Il postiglione suonò, io chiusi gli occhi, mi arresi alla disperazione, e pensai a quel che penso di solito in simili frangenti: «Sa Dio se terrai botta, se raggiungerai davvero Berlino, e se una volta lì ritornerai più uomo, capace di isolarti nella tua singolarità, oppure serberai memoria del fatto che sei un membro di un corpo maggiore!».

A Berlino ci arrivai.

Tutto qui, ma la brevità era il suo forte: aggiungendo «una ressa di robe irrilevanti» come paesaggi e comparse, avrebbe potuto scrivere «una novella sesquipedale. Però non mi va. Io mangio sì insalata, ma sempre solo il cuore, a mio avviso le foglie sono per i porci; preferisco con Lessing le delizie del concepimento alle doglie del parto».

Non era stato il caso del suo modello tedesco, che dal parto traeva una delizia doppia. A Jean Paul infatti fu imputata spesso un’esuberanza eccessiva, ma non però nel Viaggio, dove secondo lui stesso e secondo i sodali romantici, cui lo lesse durante una serata sbellicante, raggiunse in poche dozzine di pagine «il vertice del comico».

La trama è presto detta: per essersela squagliata prima di una battaglia, il cappellano militare Schmelzle viene licenziato in tronco, ma non si dà per vinto e parte assieme al cognato per la capitale con l’obiettivo di dimostrare nei giorni della fiera al comandante in capo il contrario, ovvero il suo coraggio. 

Cercai con lo sguardo attraverso il finestrino posteriore della carrozza la mia bella cittadina di Neusattel; e mi sembrò con commozione che la cima del suo campanile si dirigesse verso l’alto davvero come un epitaffio sulla mia vita o la mia salma, nel caso rientrassi morto; – come sarà tutto, pensai, se infine tornerai fra due o tre giorni? Adesso vidi la mia Berghina seguirci con lo sguardo dalla finestra della mansarda; mi spinsi ben fuori dalla portiera, e il suo occhio di falco riconobbe subito il mio capo; baci su baci mi lanciò con ambo le mani, verso la vettura rotolante nella valle. «Donna di cuore,» pensai, «come sai far dimenticare, anzi risplendere, con la rinascita spirituale i tuoi oscuri natali!».

A onor del vero, l’equipaggio postale fu meno di mio gusto; tutta gentaglia sospetta, sconosciuta, che il mercato di Flätz (come solitamente fanno i mercati) allettava con il suo afrore. Malvolentieri familiarizzo con sconosciuti; ma mio cognato, il dragone, se n’era come sempre uscito già con tutto, inferno e paradiso. Vicino a me sedeva un’altissimamente probabile prostituta – In grembo suo un nano, che intendeva esibirsi alla fiera – Dirimpetto mi guardava un cacciatore di topi. Non mi piaceva proprio nessuno, tranne mio cognato. Che la prostituta non usasse la mia conoscenza per una deposizione giurata, che ladri tra i passeggeri non studiassero me e le mie caratteristiche e i miei casi per introdurmi sotto tortura nella loro banda – su ciò nessuno poteva garantirmi. In luoghi stranieri già controvoglia – e per prudenza – guardo su a lungo verso qualsiasi grata di prigione, poiché lì dietro può sedere un brutto ceffo che in un attimo grida giù per pura malvagità: «Ecco là il mio compare, lo Schmelzle!» – o anche poiché uno sbirro ottuso può immaginarsi che cercavo di liberare il mio confederato. Per una prudenza poco diversa da questa non mi giro quindi mai se un idiota mi grida dietro: «Ladro!».  

Quanto al nano stesso, per quel che mi riguarda poteva viaggiare con me a suo libito; ma credette di suscitare in noi un particolare diletto predicendoci che il suo Polluce e fratello in affari, un gigante straordinario diretto pure lui alla fiera per esibirsi, verso mezzanotte ci avrebbe infallibilmente raggiunti col suo passo da elefante e sarebbe entrato dentro o salito   dietro.   Entrambi   i   buffoni   frequentano   cioè   le   fiere   in compagnia come evidenziatori reciproci di grandezze opposte: il nano è la convessa lente d’ingrandimento del gigante, il gigante la concava lente d’impiccolimento del nano. Nessuno dimostrò grande gioia per il prospettato arrivo del socio di maggioranza tranne mio cognato, che (se è permesso il gioco di parole) come un orologio crede di esser fatto solo per battere e una volta mi disse testualmente: «Se lassù nell’eterna beatitudine non potessi ogni tanto cantarle e suonarle a un’anima, preferirei andare all’inferno, dove ci sarà certo fin troppo da fare». 

Il cacciatore di topi in vettura – a parte il fatto già che nessuno ci entusiasma molto, il quale viva solo di avvelenamento come codesta Parca dei ratti, e che un ceffo simile, cosa ancor peggiore, minaccia di diventare un accrescitore del regno dei parassiti giust’appena non potrà più essere il suo diminutore – costui aveva in generale così tanto di funesto in sé, innanzitutto lo sguardo pungente come di uno stiletto – poi il magro affilato viso tutt’ossi in connessione con l’elenco che faceva a voce alta del suo considerevole assortimento di veleni – poi (ché l’odiavo sempre più ardentemente) la sua calma segreta, il suo segreto sorriso, quasi vedesse in qualche nascondiglio un topo sotto spoglie umane – Davvero a me, che frequento tutt’altra gente, i suoi zigomi sembrarono infine bassifondi e scogli, il suo alito ardente una fornace da calce e il nero petto villoso un essiccatoio.

Né mi ero – credo – sbagliato di molto; ché subito dopo cominciò a informare affatto freddamente la compagnia, in cui c’erano un nano e una ragazza, di avere infilzato non senza voluttà già dieci corpi col pugnale – di avere mozzato comodamente   una   dozzina   di  braccia   umane,  maciullato lentamente quattro teste, strappato due cuori e altre cose del genere – e nessuno di loro, gente di fegato peraltro, gli avrebbe opposto la minima resistenza – «Ma perché?», aggiunse velenoso levando il cappello dall’odiosa pelata, «Perché sono invulnerabile. Chi vuole compagnia, metta sulla mia piazza quanto fuoco vorrà, io lo lascio bruciare».

Mio cognato, il dragone, posò d’acchito gromma ardente di tabacco sul cranio, ma il cacciatore sopportò imperturbabile quasi fosse fuoco dipinto, e lui e il dragone si guardavano l’un l’altro aspettando, e ognuno sorrideva follemente assai – «Mi fa solo sollievo», disse, «come una buona pomata contro i geloni, perché questo è senz’altro il lato invernale del mio corpo». 

Qui mio cognato palpò un poco il cranio nudo e gridò stupito: «Al tatto è freddo come una patella!».

Ora a un tratto dopo alcuni preparativi il ceffo a nostro orrore tolse il quarto di teschio e ce lo porse dicendo: «L’ho segato via a un assassino, quando accidentalmente il suo gli fu sfondato»; e spiegò che il perforare e amputare di cui narrava era da prendere per più che una burla, avendolo fatto unicamente come factotum al teatro anatomico. 

Intanto però il burlone a nessuno di noi garbava molto anzi usciva dagli occhi, sicché, quando si rimise la calotta, il teschio di rappresentanza, tacendo pensai: questa tettoia termica da serra ha cambiato sicuramente solo il posto, non la freddolina che copre. 

Un sonoro temporale, che seguiva la diligenza, modificò il discorso. Voi tutti, amici, – conoscendomi come uomo non totalmente digiuno di fisica – indovinerete le mie misure contro i temporali: mi piazzo cioè su una sedia in mezzo alla stanza (spesso con tempo minacciosamente nuvoloso ci rimango notti intere) e mi tutelo ripulendomi di tutti i conduttori, anelli, fibbie ecc. ecc. e stando sempre lontano da tutti i fulmini in modo da percepire a sangue freddo la musica universale dei timpani tuonanti. 

Tale prudenza non mi ha mai nuociuto, visto che a questa data sono ancora vivo; e mi congratulo ancor oggi con me stesso che una volta dalla chiesa parrocchiale, pur essendomi confessato giusto il giorno avanti, senza indugi e prima della comunione sono corso via fino all’ossario perché lì sopra incombeva un greve temporale (che abbatté effettivamente il tiglio del cimitero attiguo); – e appena le nuvole si furono scaricate, dall’ossario tornai in chiesa ed ero così felice di giungere ancora dopo il boia (normalmente l’ultimo) e di ricevere l’eucaristia!

Così penso per parte mia; ma nella diligenza trovai persone per cui la fisica è una vera pagliacciata. Allorché infatti le nubi si riunirono paurose sopra il tettuccio della nostra carrozza e masse ignee crepitanti brillarono qua e là nel cielo quasi fossero lucciole; e allorché infine dovetti chiedere cortesemente che l’essudante conclave postale ammucchiasse almeno orologi, anelli, monete e cose simili in qualche tasca della vettura per non avere conduttori attaccati al corpo: non solo non lo fece nessuno, ma il mio proprio cognato, il dragone, addirittura uscì in serpa con la nuda spada sguainata e giurò che i fulmini li avrebbe condotti lui. 

Non so se la persona disperata sia sagace o no; a farla breve, la nostra situazione era terribile, e ciascuno poteva essere un uomo morto. Da ultimo ebbi perfino un mezzo alterco con due grevi carichi umani della carrozza, l’avvelenatore e la prostituta, perché interrogando dettero quasi a intendere che forse col sullodato raccolto di preziosi non avrei avuto le intenzioni più onorevoli. Una cosa siffatta ferisce violentemente l’onore, e in me ora tuonava più forte che sopra; purtuttavia dovetti sostenere l’intero necessario battibecco con voce più bassa e lenta possibile, e litigai mitemente, che alla fine una carrozza costretta ai ferri corti non finisse in bollori e sudori e così per le esalazioni attraverso il tettuccio convogliasse giù in mezzo a noi la folgore vicina. 

Da ultimo spiegai chiaro alla compagnia, ma piano e lento – non volevo emanare vapori – l’intero capitolo elettrico; e cercai in particolare di stornarli dalla paura. Ché ognuno in effetti a causa della paura poteva beccarsi un colpo – anzi due, con l’elettrico uno apoplettico –, essendo dimostrato a sufficienza che una forte paura attraverso i vapori attira il lampo; parecchio angosciato quindi per la paura mia e l’altrui, feci presente ai passeggeri che adesso con la nostra ressa soffocante, con la spada infilzafulmini in serpa e con l’incombere della nube temporalesca e poi con così tante esalazioni da paura incipiente, insomma con un pericolo così palese non dovevano avere assolutamente paura di nulla, se non volevano finire tutti stecchiti senza eccezione. 

«Oh Dio!», gridai, «coraggio! Nessuna paura! Nemmeno paura della paura! – Vogliamo dunque, piantati qui come conigli in gabbia, essere uccisi da nostro Signore Iddio? – Per me si spaventi chiunque quand’è fuori dalla carrozza, in altri posti a piacere dove c’è meno da temere, solo però non qui!».

Non saprei stabilire – dacché una persona a malapena su milioni muore di fulmine, ma forse milioni di pioggia e neve e nebbia fitta – se la mia predica postale potesse ambire a premi per soccorso umanitario, allorquando tutti illesi con davanti un arcobaleno entrammo nella cittadina di Vierstädten.

Era la prima tappa delle tre previste per raggiungere Flätz. 

Si è detto all’inizio di Bazlen, e dell’influsso che poté esercitare su di lui Jean Paul. Ma il teorico-pratico per antonomasia dell’umorismo aveva già preso piede in Italia, per vie traverse e secondarie, tali comunque da portare al costituirsi di un canone. 

Due nomi s’impongono. Carlo Dossi innanzitutto, che, oltre a comporre un Libro delle prefazioni di sapore kierkegaardiano, a fine Ottocento scrisse di sé: «Leggendo Jean Paul parmi di legger me stesso», e in sede critica aggiunse: «Shakespeare e Jean Paul sono, secondo me, i due soli nuovissimi autori. La loro influenza nella letteratura avvenire sarà pari a quella d’Omero nella passata».

Non fu così, ma la staffetta passò a Carlo Emilio Gadda, il quale nei primi anni Quaranta tentò di tradurre Jean Paul dopo averlo elogiato per antifrasi ne La cognizione del dolore, dove di un laconico guardiano notturno afferma che non era certo «arzigogolato e barocco come Jean Paul, o Carlo Gozzi, o Carlo Dossi, o qualche altro Carlo anche peggio di questi due», ossia lui stesso.

Dove sia poi finita la staffetta nel corso del secondo Novecento e oltre, lo potrà stabilire forse un rabdomante.


S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di D. Borso, Rizzoli, Milano 2021.

Jean Paul, Viaggio a Flätz, a cura di D. Borso, Del Vecchio, Roma 2021.

C. Dossi, Note azzurre, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 2010.

C. E. Gadda, La cognizione del dolore, a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Adelphi, Milano 2019. 

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