UNA CASERMA, OVVERO L’IMPORTANZA DEGLI INVISIBILI by Fabrizio Pelli
Le bande, che siano funebri, di paese o militari, sono sempre stonate. Spesso, ma non sempre, non dipende da tutti i membri, ma dai pochi che o suonano con lo strumento del nonno, ormai difettoso, o che, semplicemente, hanno scelto di imparare lo strumento sbagliato.
Marmellata, nel bene o nel male, era uno degli ultimi.
Alle 5:30, il Gallo – era così che chiamavano il soldato addetto alla sveglia – suonò, come sempre, il suo canto di tromba. Seppure fosse ben chiaro che a suonare fosse qualcuno, e non una registrazione, nessuno aveva idea di chi fosse costui. La sua identità, così era stato deciso, sarebbe rimasta incognita per evitare rappresaglie verso il povero malcapitato, che altra colpa non aveva se non di svegliarsi prima degli altri e di eseguire gli ordini. Nonostante tutti odiassero alzarsi presto, però, nessuno odiava il Gallo. Ciò che chiunque, anche i colonnelli, si chiedevano era chi fosse a svegliarlo, siccome nessun’altra tromba risuonava all’alba. Qualcuno azzardò l’ipotesi che egli utilizzasse una sveglia, ma pareva chiaro a tutti che l’esercito non potesse aver approvato una scelta del genere: nella marina, così come negli alpini e, in generale, in ogni altra divisione, la sveglia era un dispositivo vietato, perché il suo funzionamento provocava il panico negli artificieri, che nell’oggetto rivedevano un ordigno ad orologeria. L’identità segreta del Gallo, però, portava a pensare che egli potesse effettivamente essere un fuorilegge.
Una mattina estiva un po’ più fresca delle altre, il primo a svegliarsi fu il tenente Presti, detto gergalmente lo Sveglio. Si levò dalla branda alle 9:37. Presti corse al centro della caserma, nella piazzetta con la statua di Garibaldi, e suonò il corno ornamentale che teneva nel suo ufficio. Circa dieci minuti dopo, tutti i soldati erano stati radunati in lunghe file nella stessa piazza.
«Il Gallo è morto», disse lo sveglio, lanciando un’occhiata insicura al suo superiore, «o, per quanto ne sappiamo, è sparito».
È comune che, ad un annuncio del genere, qualcuno pianga, o urli, o almeno si scomponga in un elogio ad alta voce come Se ne vanno sempre i migliori, ma nulla di questo accadde: regnò il silenzio dai cinque ai sette minuti scarsi. Solo sulle facce dei più deboli, compresa quella del tenente, si dipinse una lucida lacrima.
«Nei prossimi giorni io stesso suonerò alle 5:30, fino alla nomina di un nuovo trombettista da sveglia», annunciò lo Sveglio.
Dopo essersi confrontato con il suo superiore, un uomo vecchio dagli occhi così piccoli da sembrare perennemente serrati, Presti aggiunse: «Soldati, sovente capita di affezionarsi a individui che nemmeno si conoscono, ma le cui azioni diventano così indissolubilmente legate alla nostra quotidianità da renderli parte di essa. Il Gallo ed il suo canto rappresentano uno di questi casi», fece una pausa per accendere una sigaretta, «penso di parlare a nome di tutti quando dico che questa perdita è delle più sentite. Qualcuno, fra di voi, ne conosceva l’identità? Così da poterlo cercare e poterne riferire la sparizione alla famiglia. Perdio, era un uomo anche lui», diede un altro tiro alla sigaretta.
Una voce dal pubblico chiese l’ovvietà: «Come sa che era un uomo?»
«Nasconde qualcosa, soldato? Si mostri».
«No».
Il tenente e il vecchio si guardarono confusi.
«“No” alla domanda o all’ordine, soldato?»
«Ad entrambi, signore».
I due militari si guardarono di nuovo, sempre ammesso che quello del vecchio potesse essere chiamato “guardare”, beninteso.
«Soldato, mantenga l’anonimato, se vuole, ma almeno dica quello che sa».
Passò un po’ di tempo. Poi uscì dalle file Marmellata, all’anagrafe Giannino Lusenti.
«Gianni Lusenti, trombettista della banda della corazzata Roma, signore. L’anonimato era virtù del compianto Gallo. Non mia».
«Lusenti, dice? Lusenti, cosa sa, soldato? Chi era il Gallo?»
«Prima di tutto, signore, non ho detto di saperlo», intanto fece qualche altro passo avanti, «posso avere una sigaretta da fumare mentre parlo, signore?»
Di nuovo, i due di grado maggiore si guardarono stupiti. Poi Presti si allungò in una strana arabesque, come se il piede destro fosse inchiodato a terra. Gli tese la sua sigaretta fumata quasi per metà.
«Poco male», disse Marmellata a bassa voce, «ragioniamo insieme, signore. Le dispiace?»
«Mi dica, soldato. Conduca lei».
«Chi è che non vede mai nel campo, signore? A parte il Gallo, ovviamente».
Intanto Marmellata cominciò a girare avanti e indietro di fronte alle file.
«Lavoro in ufficio, soldato. Dovrebbe saperlo che non vedo nessuno fino a pranzo».
«Ottimo punto», sussurrò Gianni, «il pranzo! Chi non si vede mai a pranzo, quando invece solitamente è possibile incontrare chiunque?»
«Non saprei rispondere, Lusenti. In aggiunta, ci sta facendo perdere tempo».
«Il tempo ce lo ha fatto perdere il Gallo morendo, semmai», disse Marmellata, nuovamente a voce bassa, «intendo, signore, che c’è solo un’altra figura che non si palesa quasi mai, persino a pranzo, e che rimane sempre nella caserma, e questa persona è il cuoco».
La folla guardò attonita Gianni, così come anche il tenente, il suo superiore, i gabbiani nella piazza e la statua di Garibaldi lo guardarono nel medesimo modo.
In particolare quest’ultima parve molto incuriosita. Come biasimarla? Dopotutto, dopo cinquant’anni passati a fare la guardia alla stessa piazza, anche il minimo avvenimento che si discosti dalla quotidianità apparirebbe grandioso.
«Beh, per quanto riguarda me, io non ho mai visto il Gallo e lo chef nella stanza, signore», riprese Lusenti.
Tutti lo guardarono ancora più stupiti.
«Io non ho mai visto il Gallo in genere, Lusenti, come non l’ho mai visto nella stessa stanza con nessuno di voi», disse Presti con lo sguardo di chi ha svelato il trucco.
«tenente, signore, mi permetta di dirle che non ritengo sia questo il punto. Il discorso è che al Gallo avrebbe fatto comodo un’altra posizione che lo tenesse ancorato alla caserma, al contrario di noi truppe che presto partiremo. Soprattutto se questa posizione gli garantiva il completo anonimato, come quella dello chef».
«Si spiegherebbe perché il suo brodo di pollo fosse così buono… Un nome, una garanzia, dopotutto», disse il tenente a voce bassa, «e lei come potrebbe dimostrarlo, Lusenti?»
«Aspettando l’ora di pranzo, signore».
L’ora del pranzo, come ogni giorno, arrivò alle 12:00. Ciò che non arrivò fu il tortino di spinaci previsto nel menu, così come non arrivò la pasta ai fagioli e la crostata di amarene. Nella sala, i soldati aspettavano impazienti che qualcuno indicasse loro cosa fare. Appena fuori, davanti all’ingresso, Giannino e il tenente Presti discutevano sul da farsi: alle 12:32 diventò evidente che il cuoco fosse il Gallo, o che comunque entrambi fossero spariti. Il tenente Presti suggerì di improvvisare un filetto alla Wellington per tutti i centoquindici commensali; la proposta venne accantonata vista la quantità di vegetariani presenti in sala.
«Mangeranno solo la sfoglia», disse il vecchio dall’alto della sua intelligenza.
«Oppure una parmigiana di verdure», propose Lusenti.
In poco tempo le alternative si esaurirono e la trattativa si concluse con la decisione di preparare una pasta al pomodoro.
«Mi raccomando: con aglio. La cipolla la rende dolce», ordinò Presti, perentorio.
Giannino uscì prima, così come anche i suoi compagni di banda, per evitare di arrivare in ritardo. Una volta al porto il maggiore Maestri, direttore della banda, li osservò per alcuni minuti dall’alto della corazzata. Sparì, poi, arretrando dietro alla balaustra di sicurezza. Tutti si domandarono il perché di una tale alterigia, attribuendo la colpa alla sparizione del Gallo.
Salirono e si disposero secondo l’ordine corretto. Maestri si pose di fronte a loro, scrutandone il volto e l’espressione. Non commentò, ma alzò le braccia. In una mano la bacchetta, ripassò lo sguardo su ognuno dei soldati. Alla vista di un segnale così esplicito, tutti imbracciarono i propri strumenti e, al primo movimento del maggiore, partirono a suonare una versione moscia e alla buona della Marcia Reale d’Ordinanza. Concluso il brano, Maestri rimase ad occhi chiusi per qualche secondo, con le mani religiosamente conserte.
«Bella marcia, non è vero?», chiese giovialmente, ma con un tono di voce particolarmente alto, «Potremmo riprovarla, ma uccideremmo la spontaneità, non credete? Dopodomani vi voglio arzilli come oggi. Deve essere una partenza grandiosa, degna della grande corazzata Roma».
«È evidente che non ha le orecchie», sussurrò qualcuno nella banda.
«Come? Chi ha parlato può ripetere?», chiese il maggiore.
«Ecco, appunto», aggiunse la voce dalla folla.
«Cosa? Qualcuno ha detto che ha uno spunto?»
«Se dirige lui, tanto vale buttarsi in mare», continuava il chiacchiericcio.
«Sì, soldati, concordo che siano tempi bui, ma non è veritiero dire che suoniate male».
«A lui non cambia nulla se il Gallo sia morto o meno».
«Il Gallo è morto?», disse il maggiore con voce tremendamente profonda, come se l’avesse scambiata con la sua in quel preciso momento, «quando è successo?»
Giannino si fece avanti tra la folla stupita.
«Un’informazione per un’informazione, maggiore», esordì, «le dirò cos’è successo al Gallo, ma prima dovrà dirmi se lei è veramente sordo».
Il maggiore lo guardò serissimo, a dir poco minaccioso.
«Certo che il mare è torbo: c’è stata la mareggiata ieri. Ora mi dica del Gallo, soldato, è un ordine».
Giannino lo scrutò ancora più confuso. Poi, insofferente, rispose.
«Signore, il Gallo è morto, per quanto ne sappiamo, perciò siamo rimasti anche senza cuoco».
Maestri masticò qualcosa e un filo di bava gli colò sul caban in lana blu, ma lui non parve accorgersene.
«Lei… Come si chiama lei, soldato?»
«Lusenti Giannino, signore, trombettista».
«Lo vedo».
«Di sicuro non lo sente», disse a voce bassa Giannino.
«Lei suona male Giannino. Suona male e non potrà mai suonare meglio», sentenziò il maggiore.
Nel pubblico qualcuno bofonchiò qualcosa di incomprensibile, mentre Giannino rimase muto.
«Si avvicini, mi permetta di controllarle le labbra», ordinò Maestri, «come sospettavo le sue labbra non sono fatte per suonare la tromba. Mi consenta solo di provare a…».
«Ma cosa fa? Si stacchi», gridò Giannino, spingendo il maggiore.
«Non la stavo baciando, soldato, si calmi. Volevo controllarle le labbra».
La folla rimase ancora muta.
«E, come sospettavo, le sue labbra non sono adatte al bocchino della tromba. Non può rimanere nella banda, questo è certo, e dovrebbe anche cambiare strumento», poi, una volta più vicino al suo orecchio, il maggiore continuò, «ci vedremo stasera al bar e là le dirò di più».
Giannino, così come la folla, rimase in silenzio.
La sera, Giannino entrò nel bar. Così chiamavano una piccola bettola appena fuori dai cancelli della caserma. Dentro, un padre ed una figlia mandavano avanti l’attività da qualche decennio. Lusenti salutò qualcuno al tavolo delle carte, e diresse nella stessa direzione anche uno sguardo schifato verso quel porco di Toni, detto il Provola, che ci aveva provato con Marilena. Marilena, a sua volta, era la barista che Marmellata corteggiava da giorni, ed era anche la figlia del proprietario della bettola.
«Marilena, meo amor», disse Giannino con un lieve accento spagnolo.
«Ciao Gianni, cosa ti porto?»
«Portami in una stanza e fammi tuo, Marilena».
«Stupidino, non dire queste cose di fronte a mio padre. Sai che non gli piacciono le effusioni in pubblico. Cosa vorresti bere, tesoro?»
Giannino la osservò con un sorriso perverso.
«Portami un whisky e soda, señorita», disse lui, «con tanto ghiaccio».
«Vuoi anche un toast con la marmellata?»
«Di prugne. Le più aspre che hai».
«C’è solo di albicocche. Lo vuoi lo stesso, caro?»
«Allora vada per le albicocche, chica».
Marilena tornò poco dopo. Aveva in mano un piattino con sopra le due metà del toast a forma di triangolo. Con il sedere chiuse la porta della cucina, poi preparò il cocktail di fronte a lui, mentre egli ne apprezzava la, seppur goffa, maestria.
«Ho saputo che devi partire dopodomani. Non me lo avevi detto. Pensavi di scappare senza dirmi nulla?»
«Te lo avrei detto, meo amor», disse Marmellata prima di dare un morso al suo proverbiale toast, «ma c’è una novità…»
«Dimmi. Se vuoi dirmi che è morto il Gallo, sappi che lo so già».
«Come lo sai? È successo stamattina. Presti si è svegliato tardi, quasi alle dieci, anche se è stato il primo. Ci ha convocato tutti davanti a Garibaldi», bevve un sorso, «comunque volevo dirti che forse partirò più avanti».
«Come mai? Sarebbe stupendo, mio piccolo mariachi!», gridò stridula Marilena.
«Maestri mi ha detto che non sono fatto per suonare la tromba e che dovrei, secondo lui, cambiare strumento. Ci saremmo dovuti incontrare qui per discuterne meglio. Ciò che è certo è che non potrò più suonare sulla Roma».
«Allora corri. Maestri ci sta fissando dal tavolo laggiù da quando sei arrivato».
«Dove señorita?»
Marilena indicò con lo sguardo un tavolo in fondo alla sala, proprio accanto al tavolo delle carte. Maestri lo fissava con gli occhi fin troppo sbarrati, come se avesse qualche tipo di disfunzione alla tiroide. Rimaneva immobile con inquietante rigidità.
«Sembra sereno», disse, innocente, Marilena.
«Torno fra poco, meo amor», disse sporgendosi oltre il bancone per darle un bacio sulle labbra. Bacio che lei scansò e che apostrofò ponendo un dito dritto di fronte a lui.
«Niente effusioni in pubblico, hermano».
«Hermano vuol dire “fratello”».
«Muoviti Giannino».
«Mi precipito».
Arrivato al tavolo, Giannino tirò un colpo di natica all’altezza della coppola di Toni, che gridò qualche bestemmia contro il primo.
«Taci, Provola», fu la risposta.
«Buonasera, maggiore».
«Lusenti, finalmente. Pensavo che il ghiaccio del mio cocktail si sarebbe fuso tutto in sua attesa», disse senza distogliere lo sguardo dall’infinito che stava contemplando.
Il maggiore Maestri, in realtà, non stava bevendo nulla, né era presente alcun bicchiere di fronte a lui. Marmellata, però, non rispose.
«Veniamo al punto», la voce del maggiore cambiò, mostrando la stessa transizione a cui era andata incontro durante le prove, «lei non può suonare la tromba nella mia banda, questo è evidente. Ma, c’è un “ma”, può fare un provino come clarinettista. C’è un posto vacante nella banda della corazzata Littorio. La nave partirà domenica, il 12 luglio, così avrà anche più tempo da dedicare alla sua chica», disse, azzardando un’occhiata ammiccante.
«Grazie, maestro».
«Taccia, perdio, che ci ascoltano. E poi non pensa di aver già detto abbastanza per stasera? Porco di un cane, ha già pronunciato quattro parole», lo interruppe, «si presenti al porto domani mattina alle 7:00 e chieda del maggiore Crescenti. Gli chiederà del posto da clarinettista e lui le darà…»
«Mi darà?»
«Le darà le altre informazioni».
«Le altre informazioni?», chiese, insicuro, Giannino.
«Le altre informazioni. Perdio, soldato! Avrà pur qualche altra informazione da darle».
«Grazie allora. A presto».
«Taccia, soldato, taccia! Non ne posso più di sentirla oggi».
«Adesso ci sente, il bifolco», sussurrò Giannino.
«Sì», rispose Maestri.
Il porto, la mattina, profuma di mare, mentre la sera si può dire che puzzi del medesimo aroma. Giannino era lì alle sette precise. Trovò subito il maggiore Crescenti. Non era sulla Littorio, ma bensì seduto su delle casse a discutere con i membri della sua banda di come Wagner concili il sonno.
«Provate, vi dico! Provate!», disse con l’enfasi di un profeta, dando un tiro al sigaro che teneva in mano, «Con il Beglückt darf nun, dalla Tannhäuser, dormo in dieci minuti, ma con il Liebestod ne bastano sette! Provate, vi dico!»
«Signore, buongiorno», esordì Marmellata.
«Tu cosa ne pensi del Liebestod, soldato?»
«Non l’ho mai ascoltato, signore».
«In effetti sembri uno sveglio», Crescenti lo scrutò attraverso una cortina di fumo, «dimmi chi sei e perché sei qui in massimo dieci parole».
«Giannino Lusenti, sono qui per il posto vacante da clarinettista».
Crescenti, con una smorfia stupita, contò con le dita fino a dieci.
«Da clarinettista, mi dici», il maggiore si fece improvvisamente cupo, «permettimi di provare una cosa…»
«Ma cosa fa? Anche lei controlla in questo bizzarro modo se posso suonare o meno il clarinetto?», grugnì, spingendo il maggiore.
«Ti è piaciuto?»
«Cosa?»
«Il bacio, ti è piaciuto?»
«A me no».
«Beh a me sì. L’ho fatto perché mi piace, soldato. Mi pare ovvio che la forma delle tue labbra non decreti la tua capacità di suonare il clarinetto», disse Crescenti, «seguimi».
Arrivarono in un hangar completamente vuoto, al cui centro era posizionata una sedia. C’era un freddo particolare all’interno, un freddo umido e innaturale. La luce entrava solo da un pertugio formato dalla ruggine sul muro in lamiera.
«Si sieda», intimò Crescenti, accendendo con uno zippo il sigaro, che nel frattempo si era spento, «sicché lei suona il clarinetto».
«Ora mi dà del lei?»
«È un colloquio di lavoro, perdio», diede un tiro al sigaro, «risponda alla domanda».
«Suono la tromba, signore, ma il maggiore Maestri sostiene che le mie labbra non siano adatte al bocchino della tromba».
«Comprendo», il maggiore iniziò a girargli attorno, «mi dica, soldato, lei si sveglia con la luce?»
Giannino si girò di scatto: «Cosa intende?»
«Intendo esattamente quello che ho chiesto: si sveglia con la luce?»
«Generalmente sì, signore», deglutì sonoramente, «anche se durante l’inverno, quando albeggia tardi, mi sveglio dopo. Comunque presto: verso le cinque o giù di lì».
«Comprendo», altro tiro di sigaro, «beh, questo è irrilevante. È assunto. Prenda questa».
Il maggiore gli pose un fagottino di stoffa. Dopo un’occhiata interrogativa, Marmellata lo svolse. All’interno era contenuta un’antichissima sveglia. Sulle due campanelle la ruggine proliferava come il grano a maggio.
«Signore, questa è illegale qui».
«Tienila, Gallo».
Giannino sussultò: «Non sono il Gallo, e non mi chiami così».
«Da oggi lo sei, Gallo».
«Signore, io devo partire, e francamente non è una responsabilità che voglio prendermi. Amo la vita comunitaria e odio la solitudine, e poi cosa dirà mia madre?»
Il maggiore cominciò a tossire.
«Si è mai chiesto come vada avanti la caserma senza che qualcuno la svegli?»
Giannino non si alzò nemmeno dalla sedia.
«Addio, Gallo», il maggiore Crescenti si accasciò a terra e, con eleganza, smise di tossire. Morto, rimase con un braccio rigidamente alzato. Aveva la mano serrata intorno ad un pezzetto di carta. Lusenti lo prese e ne lesse la scritta.
“Se è in dubbio, pasta al pesto”
La mattina successiva, precisamente il 9 luglio, un canto di tromba svegliò la caserma alle 5:30. Sebbene tutti fossero convinti che a suonare fosse qualcuno, e che non fosse né il tenente Presti, né una registrazione, nessuno aveva idea di chi avesse preso il posto del Gallo.
«Sarà un fuorilegge», dicevano.
«Vedremo a pranzo».
Fabrizio Pelli è nato il 29 giugno 2001 a Reggio Emilia. I suoi racconti sono usciti su Quaerere, Malgrado le mosche, Bomarscé e Enne2. Ad aprile 2022 è uscita la sua raccolta di poesie “Il privilegio della veglia” (Controluna Edizioni) ed è entrato tra i venticinque semifinalisti del Premio Campiello Giovani 2022.