NON SPEDITE CARTOLINE AI NEMICI by Maria Serra
The English translation follows the original Italian text. For more reflections on how this translation was made by the author/translator read her essay, written in July 2023.
NON SPEDITE CARTOLINE AI NEMICI
Conosci il nemico come conosci te stesso, direbbe Sun Tzu.
Ma questa non è la Cina imperiale.
E neppure un workshop di strategia manageriale.
Sono sulla spiaggia di Tel Aviv, è il 7 agosto 2022, e tutto è normale.
I surfisti in mare.
I bagnanti escono dall'acqua, così mi pare.
E io, ancora una volta, mi conosco poco e male.
Se mi conoscessi meglio, infatti, saprei che mi ci vuole ancora un po' di pratica per riconoscere il rumore che fa la guerra in questa città.
Per esempio, questo che sento in lontananza, un pigro lamento intermittente, non è l'allarme antincendio dell'Hilton, richiamato al dovere, se pur contro voglia, dai quattro tiri di sigaretta che una signora francese non ha rinunciato a farsi in camera appena sveglia.
Lo capisco a scoppio ritardato: una bestia di cemento così non rischia di farsi incendiare con tanta nonchalance. E i bagnanti, a ben guardarli, non stanno uscendo in massa dall'acqua perché unanimemente stufi della brodaglia di mezzogiorno: stanno piuttosto correndo verso la riva per sottrarsi alle mascelle dello Squalo, e del più cattivo di sempre, quello di Spielberg, il primo e inimitabile. Anzi, no, ecco che puntano tutti verso il bar, e ormai mi è chiaro che devo spicciarmi se non voglio trovare l'accesso intasato.
Allora comincio a correre anch'io.
Sono ancora in strada, con la spiaggia di fronte, ma il locale è a due passi ed entro dal retro, riuscendo a prendermi un discreto vantaggio sui bagnanti. Non è propriamente un bunker, lo chiamano "safety place", e a quanto pare sotto questa tettoia di cemento armato dovremmo stare davvero al sicuro. Un po' strettini, magari. Quasi quasi tiro fuori la mascherina dalla tasca, ma sono in costume da bagno, già.
Vicino a me, una ragazza americana è preda di una crisi isterica che si esaurisce nell'arco, pur lunghissimo, di dieci secondi. Dopodiché soccombe all'imbarazzo perché è l'unica che lì dentro, o lì fuori, in quel lembo di cemento che ci fa da scudo sopra la testa ma ci espone a eventuali attacchi frontali e laterali, poni lo sfigatissimo caso di un razzo sghimbescio, insomma in quel limbo tra la vita da spiaggia e la vita da bunker, lei è l'unica che è stata capace di produrre un rumore umano. Io taccio, e come tutti gli altri sto in ascolto e osservo.
Ormai l’ho capito, affinare i sensi è indispensabile per sopravvivere a questa vacanza in Israele. «Hai sentito le sirene?», mi chiederà più tardi la ragazza della reception del residence in cui alloggio. Un po' in lo-fi, mi verrebbe da ribattere, l'impianto non è senza dubbio dei migliori, ma non voglio essere cinica con una che ha l'aria molto preoccupata. «Tutto bene», le dirò per rassicurarla, e in fondo è vero: non ho esattamente paura delle sirene e di ciò che fa seguito, quel rombo soffocato che mette in pausa i rumori di fondo delle strade sempre affollate di Tel Aviv. Il rombo mi inquieta perché sembra provenire da un amplificatore sotterraneo, simile a quello di cui narra lo speleologo Hannibal West nel racconto The Dim Rumble di Isaac Asimov.
In realtà cominciai ad avvertirlo, per le strade della città, già prima che scoppiasse l’allarme: mi chiesi se fossi stata solo io a sentirlo, o se me lo fossi inventato. Un giorno mi capitò di udirlo anche ad Haifa, nel Nord del paese, che non era stato colpito dai razzi neppure nei giorni precedenti. Un'allucinazione uditiva? Non poteva essere un rumore di guerra vero. Tuttavia, in quell’occasione non ero stata l'unica a percepire di nuovo l’ormai familiare scoppio smorzato; se si trattava di un'allucinazione, posso quantomeno affermare di averla condivisa con gli amici con cui mi trovavo quel giorno ai Giardini Baha'i.
Ma torniamo alla veranda-bunker con vista sulla spiaggia.
In quel momento, oltre al rombo, percepisco nitidamente il tonfo della quarta parete che cade sulla scena, con gli attori lì nudi che sperano che qualcuno la ritiri su al più presto. Cosa che infatti prontamente accade, non appena un giovane turista, un europeo questa volta, forse anche lui francese come la signora dell'Hilton che fumava troppo, pronuncia l’abracadabra che dispiegherà le porte della sicurezza di tutti noi: «You know, they have this thing called Iron Dome...». Siamo sotto la Cupola di Ferro, baby. Secondo i mass media americani ed israeliani, il sistema antimissilistico più efficace del pianeta Terra, sempre che si tratti di razzi a breve-media gittata lanciati dalla Striscia di Gaza. E chi non si sentirebbe al sicuro sotto una cupola di ferro invisibile che ti protegge dal nemico?
La gente intorno riprende a fare rumore. Torna in spiaggia, comincia a giocare a racchettoni, o visto che è già lì, si assicura un posto al tavolo al bar. È ora di pranzo, dopotutto. Se ancora andasse di moda scrivere cartoline e riceverle, ne cercherei subito una con l'Iron Dome. Basterebbe a questo punto una cartolina qualunque che ritraesse un qualunque angolo di Tel Aviv. Una veduta di Gordon Beach, per esempio. Saluti dall'Iron Dome.
Il servizio postale del paese fu istituito nel maggio 1948, anno di fondazione dello stato israeliano. I primi francobolli furono disegnati e stampati, clandestinamente, due giorni prima della Dichiarazione d'indipendenza, quando Israele non aveva ancora un nome ufficiale. L'affrancatura riportava soltanto la dicitura Doar Ivri, “Ufficio postale ebraico”. L'avevo scoperto qualche giorno prima che suonassero le sirene in città, e prima ancora di udire esplosione alcuna, vicina o lontana che fosse – non ho mai percepito la portata della distanza, nel grembo ovattato della Cupola – ma avevo notato, molto chiaramente, un certo numero di aerei militari in volo nei cieli senza nuvole di Tel Aviv, un numero di gran lunga superiore al totale degli aerei militari visti in tutta la mia vita; una cifra non considerevole quindi, ma pur sempre sospetta. Erano gli aerei che sarebbero scesi su Gaza per bombardarla, quello stesso giorno.
Al museo Eretz di Tel Aviv, all'interno dell'Alexander Pavillion, dedicato alla storia del servizio postale nazionale e della filatelia, mi aveva colpito, in particolare, un pezzo della collezione risalente alla seconda guerra mondiale: una cartolina scritta da un tale dottor Walter Spitz e indirizzata a un tal altro signor Spitz; un padre forse, oppure un fratello o un altro membro della famiglia. Spedita nel 1939 verso una Cecoslovacchia ormai sotto il gioco tedesco, fu censurata e restituita al mittente. Fatto di per sé poco sorprendente, ho sempre saputo che la censura postale era prassi usuale, ovunque nel mondo, in periodo di guerra. La mia attenzione era stata tuttavia catturata da una frase in inglese, scritta a mano su un'etichetta incollata alla cartolina, sopra la dicitura Returned to the Sender by the Censor. Quella frase era un monito, apposto verosimilmente da un addetto degli uffici della censura del Mandato Britannico che governava all'epoca la Palestina, di cui Tel Aviv era parte: No letters should be sent to the enemy countries. Non si mandano lettere ai nemici. D’altra parte, è una delle poche certezze della guerra: i nemici.
Chissà se al dottor Spitz quell'ingiunzione suonò paradossale, visto che nel 1939 la Palestina era reduce da tre anni di guerra civile intestina tra comunità ebraiche e arabe, e i sionisti avevano già dichiarato guerra al cosiddetto Libro Bianco emanato dai britannici, una serie di disposizioni che limitavano l'immigrazione incontrollata di ebrei in Palestina, la quale a sua volta era stata causa dell'insorgenza della popolazione araba.
O forse gli sembrò legittima, se come Ben Gurion pensava che i nemici avessero più facce. «Dobbiamo combattere il Libro Bianco come se la guerra non ci fosse, e la guerra come se non ci fosse il Libro Bianco», disse ai tempi il leader del movimento sionista, poi fondatore dello Stato di Israele e suo primo ministro.
Oppure, invece, per il dottor Spitz la Cecoslovacchia, invasa dai tedeschi e annessa alla Germania con la forza, non sarebbe mai diventata un paese "nemico". Forse si trattava del paese in cui era nato e vissuto prima di fuggire in Israele, e non ci sono dubbi che fosse quello in cui viveva il destinatario della cartolina da lui scritta e spedita quel 4 settembre 1939. Di certo quella cartolina era destinata a una persona che, per quanto vivesse in un paese "nemico", il dottor Spitz considerava a tutti gli effetti sua “amica”.
«Quando il nemico ti ha portato a combatterlo con le armi da lui scelte, a usare il linguaggio che lui ha inventato, a farti cercare soluzioni tra le regole che lui ha imposto, hai già perso tutte le battaglie, compresa quella che avrebbe potuto vincerlo», diceva sempre Sun Tzu nel suo L’Arte della guerra, il libro più citato in assoluto da chi vede nemici ovunque. Ma il nemico è sfuggente, cambia volto come in quei sogni bizzarri in cui il tuo compagno di letto assomiglia prima a un bello straniero e poi a tuo padre, a tuo fratello, magari anche a tuo figlio. Nell’ultima guerra tutti abbiamo perso un amante, direbbe Yehoshua.
A Tel Aviv ho capito che, per poter riconoscere un nemico, bisognerebbe saper inquadrare bene il profilo del salvatore. Senza di lui, nessuna storia di guerra davvero credibile può essere scritta, perché la trama non reggerebbe: «non c’è conflitto», direbbero i maestri di scrittura creativa. E per poterti rassicurare, il salvatore deve rimanere sempre uguale a sé stesso. Il mio oggi indossa una divisa, per aiutarmi a individuarlo senza possibilità di sbaglio, nel caso mi sia sfuggito il suo ruolo. Siamo qui, mi strillano contro orde di ragazzini e ragazzine in mimetica, con il fucile in spalla a mo’ di zaino, o che ricade lungo a metà coscia come un basso elettrico. Li incrocio per strada, sui treni, ai tavoli dei bar della Città Bianca. Noi non siamo invisibili, vedi! Mi distraggono con il loro chiasso, provo a fotografarli ma non ci riesco. Un’altra allucinazione, vorrei credere speranzosa, come l’Iron Dome sulla cartolina che mai spedirò a nemici e amici da Tel Aviv.
***
DO NOT SEND POSTCARDS TO ENEMIES
Know your enemy, know yourself, Sun Tzu famously say.
However, this is not imperial China.
It is not a lecture in ‘Leadership strategies’ either.
I am on the beach in Tel Aviv on August 7, 2022 and everything appears to be normal.
Surfers in the sea.
Swimmers popping out of the water, or so I think.
But once again I do not quite understand myself.
If I knew myself better, it would have dawned on me sooner that I need more practice to identify the sound of war in this city.
For example, this intermittent whine I hear from afar is definitely not a sluggish fire alarm. No French lady has called it back to duty by taking a few cigarette drags after waking up in her Hilton Hotel room.
The realization hits me like a ticking time bomb: this concrete behemoth is unlikely to catch fire with such ease. Taking a closer look, swimmers are not clearly leaving the water en masse because they are tired of the scorching midday waves. They are rather rushing to the shore, escaping the jaws of the evilest shark in history, Spielberg’s first and unparalleled creature. Actually not, they are all heading for the bar, and I need to get a move on if I want to secure my spot.
I start running, like them.
I am still on the street, in front of the beach bar, but the venue is just a stone's throw away. I enter through the back, managing to get a decent advantage over the beachgoers. It is not exactly a bunker, the bar is referred to as a "safety place", and apparently, we should be safe under this reinforced concrete roof. Kind of cramped, though. Shall I take my mask out of the pocket? Well, I am only dressed in a bikini. I almost forgot.
A young American woman beside me is overwhelmed by a hysterical crisis that seems to stretch on for an eternity, yet lasts only ten seconds. She succumbs to embarrassment as she realizes she is the sole person producing human sounds here, or rather "out there" — we find ourselves in a limbo between beach life and bunker life, with just a strip of concrete overhead, a shield that leaves us vulnerable to attacks from both the front and the sides. I remain quiet, listening and observing the scene, like the rest of the people around me.
I understand now that I need to sharpen my senses if I want to survive this trip to Israel. "Did you hear the sirens?" the hotel receptionist asks me later. I am tempted to respond that they sounded lo-fi, but I don't want to appear overly negative to someone who looks concerned. I reassure her, "It's all good," and it is indeed true. I am not particularly afraid of the sirens and the muffled roar that temporarily silence the ever-bustling streets of Tel Aviv. However, the noise does unsettle me because it seems to originate from an underground amplifier, reminiscent of the sound described by speleologist Hannibal West in Isaac Asimov's short story "The Dim Rumble."
Before the sirens blared in Tel Aviv, I had wondered multiple times whether I was the sole person hearing that sound or if I had imagined it. In fact, I began to sense it already while strolling the streets of the city, even before any alarm went off. On one occasion, I even heard it in Haifa, after the official start of the ceasefire. The northern part of the country had not been hit by rockets even in the days before. Was it an auditory hallucination? It could not be an actual sound of war. Nevertheless, on that day, I was not the only one to detect the now-familiar subdued burst. If it was a hallucination, I can at least assert that I shared it with the friends I was with that day at the Baha'i Gardens.
Stepping back into the veranda bunker “with a view” on the beach — In that moment, in addition to the rumble, I distinctly perceive the thud of the fourth wall crashing down onto the scene, leaving the exposed actors desperately hoping for a swift restoration. And right on cue, a young European tourist enters the scene, perhaps hailing from France like the lady at the Hilton who smoked too much, uttering the magical “abracadabra” words that unlock our collective sense of security: "You know, they have this thing called Iron Dome...". We are under the Iron Dome, baby. According to American and Israeli media, the Dome is hailed as the most effective missile defense system on planet Earth, as long as we are talking about short to medium-range rockets launched from the Gaza Strip. And who would not feel safe under the shelter of an invisible iron dome, guarding us against the enemy?
The people around resume making noise. They return to the beach, start playing matkot, or since they are already there, secure a spot at the bar table. After all, it was lunchtime.
If sending and receiving postcards were still in fashion, I would immediately look for one featuring the Iron Dome. At this point, any postcard depicting any corner of Tel Aviv would be fine, even a shot of Gordon Beach. Greetings from the Iron Dome.
The country's first postal service was established in May 1948, when the State of Israel was founded. The first stamps were designed and printed in secret, two days before the declaration of independence, at a time when Israel did not yet have an official name. These stamps bore only the words Doar Ivri, Jewish Post Office. I had discovered this detail a few days before the sirens had sounded in the city, before I had even heard any blasts, whether nearby or far away. Under the muffled dome, I could not determine the proximity of any explosions I heard. However, I had noticed several military aircraft flying in the cloudless skies of Tel Aviv, a number far greater than the total I had seen in my entire life. Although not a significant number, it still seemed suspicious. Those planes were the ones that would later descend on Gaza to carry out bombings that day.
At the Eretz Museum in Tel Aviv, I was taken aback by a piece in the Alexander Pavilion's collection, which was dedicated to the history of the national postal service and philately. One item in particular, a postcard from World War II, caught my eye. The postcard was written by Dr. Walter Spitz and was addressed to a Mr. Spitz, who was likely a family member. The postcard was sent to Czechoslovakia in 1939, when the country was under German control.
As expected, the postcard was censored and returned to the sender, a common occurrence during wartime. However, what really piqued my interest was the handwritten label that was attached to the postcard. The label, written in English, was located above the words "Returned to the Sender by the Censor". It had a cautionary tone and read, "No letters should be sent to enemy countries." This warning was most likely written by an attaché in the Censorship Office of the British Mandate, which at that time governed Palestine, including Tel Aviv. One should not send letters to enemies. And enemies are one of the few certainties of wartime.
This brings up the query of whether Dr. Spitz viewed the warning as contradictory, considering the civil war between Jewish and Arab communities and the Zionists' declaration of war against the British White Paper, which imposed restrictions on Jewish immigration to Palestine. Or did it seem reasonable to him? Maybe he believed, like Ben Gurion, that enemies can have multiple facets. The head of the Zionist movement, who went on to become the first Prime Minister of the newly formed State of Israel, once famously stated, "We must fight the White Paper as if the war were not there, and the war as if the White Paper were not there."
On the other hand, maybe Czechoslovakia, which had been invaded by the Germans and incorporated into Germany, would not have been considered an "enemy" nation if we asked Dr. Spitz. Maybe he was born there and lived in Czechoslovakia until he fled to Israel. Certainly, on September 4 1939, Dr. Spitz considered the recipient of this postcard a "friend”, even though he resided in an "enemy" country.
“When the enemy has made you fight him with the weapons he has chosen, using the language he has invented, making you look for solutions in the rules he has imposed, you have already lost all the battles, including the one you could have won," Sun Tzu said in The Art of War, a book widely quoted by those who see enemies at every turn. However, enemies are elusive creatures, and their faces can change like in those weird dreams in which the person lying next to you transforms from a handsome stranger to a father, brother, or even son.
In Tel Aviv, I came to understand that identifying the enemy requires being able to accurately depict those considered to be saviors. War stories are not credible without rescuers, as creative writing teachers would say, "there can be no conflict". For added peace of mind, rescuers should always remain the same. My rescuers now wear uniforms, making it easier for me to instantly recognize them if I happen to overlook their significance.
I often see young people in camouflage shouting "Here we are!" They carry their rifles either slung over their shoulders like backpacks or hanging from their waists like electric bass guitars. I encounter them on the streets, in trains, and even at the tables of the White City bar. "We are not invisible, you see!". I am disturbed by the loud noises they make. I try to take a photo of them, but I fail. I do hope that this is just another hallucination, like the Iron Dome on the postcard I will never send to both friends and enemies from Tel Aviv.
Maria Serra nasce e cresce a Cagliari. Dopo il diploma al Liceo Classico si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia della sua città ma prosegue gli studi a Leiden, in Olanda, e poi a Bologna, dove si laurea con una tesi in Storia contemporanea. Agli inizi degli anni Duemila si trasferisce a Milano e comincia a lavorare con parole e immagini: è redattrice presso importanti case editrici e scrive su riviste di design, arte e musica. Fa una breve esperienza a Londra, ma capisce che il capoluogo lombardo è il punto più a nord a cui il suo corpo può acclimatarsi. Tuttora lavora nell'editoria e vive a Milano, dove ha frequentato i corsi di scrittura creativa di Raul Montanari. Nel 2022 ha pubblicato il suo primo romanzo ‘Il karma del camaleonte’ (Alter Erebus). Un suo racconto, ‘Cincillà’, è stato pubblicato sulla rivista letteraria online Squadernauti.