LO SGUARDO di Ambra Cavallaro

Il portale che mi aveva inghiottita era ben nascosto, come una trappola per topi in un prato incolto. Avevo smesso di cimentarmi con la caccia al tesoro, da tempo; ormai, vagavo senza meta per colmare i vuoti. Nel mezzo di questo estenuante peregrinare, un sabato pomeriggio pigro e trascinato ricevetti una telefonata.

«Ti ricordi che il concerto è stasera?»

No, lo avevo dimenticato. Anzi, non avevo alcuna intenzione di tirarmi a lucido, né, a dirla tutta, di alzarmi dal divano.

«Ci vediamo alle 21:30 davanti al locale?», chiese la voce di Kathrin attraverso lo smartphone, mentre cercavo di mettere a fuoco le mie intenzioni.

«Okay.»

Avevo già comprato il biglietto, non mi piace venire meno agli impegni. Rotolai a terra insieme ai cuscini, entrai in doccia e mi affidai alla benevolenza dell’acqua calda. Infilai l’accappatoio blu elettrico sulla pelle d’oca, avvicinandomi allo specchio e cercando di riflettermi sulla superficie appannata. Avevo delle occhiaie spaventose. Mi cosparsi il viso di correttore, cipria e fondotinta, fino a ottenere un incarnato presentabile al di fuori delle quattro mura; indossai l’abito nei toni della coda di pavone, di cui incorporavo la vanità, e le mie scarpe migliori, per sentirmi elegante e slanciata. Mi chiusi la porta alle spalle, anelando il momento l’avrei riaperta per strofinare i residui di mascara sulla federa del cuscino.

Le distorsioni dei Twin Tribe anestetizzarono la spossatezza fino al termine dell’esibizione. Dopodiché, la morsa riprese a braccarmi. Io e Kathrin ci guardammo: volevamo fumare l’ultima sigaretta, sigillare la serata e imboccare la via del ritorno. Gettai a terra il mozzicone, alzai la testa e scorsi Danielle. Ci eravamo perse di vista da due anni; decidemmo di brindare alle casualità che ci avevano fatte ritrovare. Nel frattempo, Kathrin si congedò, abbandonandomi a quel che il destino mi aveva riservato. Mentre sorseggiavo il drink mordicchiando la cannuccia nera, Danielle mi accompagnò al tavolo per presentarmi il suo amico Rick, che aveva incontrato per caso la sua amica Rosa, che aveva incontrato per caso il suo amico Alex, che si trovava lì per caso. Una scarica elettrica ci sincronizzò su frequenze segrete, impercettibili all’esterno, avvolgendoci in una bolla di interesse inesauribile che si protrasse fino alle sei del mattino. La sua risolutezza era controbilanciata da un’acuta introversione, che mi costrinse ad assumere il ruolo della predatrice. Sentivo che, in caso contrario, avrei lasciato scivolare via gli attimi futuri. Mi adoperai per ottenere un suo contatto, e, per non dare troppo nell’occhio, estesi la richiesta al resto dei presenti.

Quando, nell’andarsene, si accinse a chiudere lo sportello dell’auto, strinsi le sue dita tra le mie, provocando in lui una reazione di sgomento e, come scoprii in seguito, di eccitazione.

Il pomeriggio successivo, scorrendo con lo sguardo vitreo il feed di Instagram, vidi comparire una notifica nella parte alta dello schermo: «Mi ha fatto piacere conoscerti…», recitava l’anteprima del messaggio, che avrei potuto continuare a leggere solo qualora lo avessi visualizzato per intero. Attesi diciassette minuti, aprii la chat. Vuota. Mi chiesi se avessi avuto un’allucinazione o se fosse davvero così timido da averlo eliminato. Non mi diedi per vinta: risposi al messaggio scomparso e, in men che non si dica, riprendemmo il discorso da dove lo avevamo interrotto poco prima, faticando a individuarne la fine. Una sera piovosa, ci demmo appuntamento davanti a un bar del quartiere in cui entrambi abitiamo. Me lo ricordavo bene: non c’era nulla, nel suo aspetto fisico, che avesse suscitato in me particolari moti, ragione per cui temevo che, nel rivederlo, avrei sentito il bisogno di inventarmi una scusa per fuggire. Tuttavia, il magnetismo che mi aveva spinta a cercarlo non subì mutazioni, quindi rimasi. Le ore trascorsero in piena naturalezza, tra torrenti verbali e occhiate eloquenti, mascherate dalle luci rosse e soffuse del Sound. Ero in procinto di congedarmi, quando Alex si offrì di scortarmi verso casa; accettai il convenevole per non privarmi della sua compagnia e, nell’inserire la chiave nella serratura del portone, sentii delle braccia avvolgermi e una bocca sfiorare il mio collo, fuochi d’artificio e scosse di terremoto. Un incendio era divampato senza preavviso e non avevo estintori pronti a domarlo, per impedirgli di incenerire ogni singolo brandello rincollato con dedizione al fine di plasmare una nuova integrità emotiva. Mi sentivo liquefatta e sospesa in una dimensione a cui non sapevo dare un nome, eterea ed evanescente.

I giorni si susseguivano veloci e la passione non accennava a consumarsi. Ci muovevamo in un’aura di attrazione fatale, camminavamo mano nella mano. Tutto ciò che ci circondava era una scenografia immobile, un cartonato color seppia il cui unico scopo era quello di mettere in evidenza il vivido bagliore di cui ci eravamo illuminati. Eravamo insaziabili, non riuscivamo a rinunciare l’uno all’altra neanche mentre passeggiavamo per i vicoli del centro, scherniti dalle occhiate di passanti incuriositi dagli impeti adolescenziali, messi in atto da una coppia di persone ormai adulte. Pendevamo letteralmente dalle rispettive labbra e restavamo seduti in contemplazione degli scorci, immersi in un immaginifico candore che avrebbe potuto dilatarsi all’infinito, e invece aveva una data di scadenza impressa nelle circostanze. Alex non viveva nel mio quartiere, nella mia città, nel mio Paese: ci si trovava per lavoro. Ci eravamo conosciuti durante i suoi ultimi due mesi di permanenza e, nonostante gli sforzi attuati e le barriere innalzate, rimanemmo vittime di un incantesimo. Ogni abbraccio ci avvicinava all’ultimo abbraccio, vivevamo in un memento mori. La sabbia nella clessidra stava per ultimare la discesa, e noi passavamo le ore a rifrangere le nostre immagini sulle iridi offuscate dall’impetuoso imprevisto che non eravamo in grado di gestire, nel tentativo di fissarle per sempre nella mente. Ci cercavamo, sentivamo la necessità di condividere ogni sfumatura. Visitavamo mostre, ascoltavamo musica, parlavamo di letteratura, giocavamo a scoprirci, bevevamo vino rosso e ci trattavamo con cura.

Alex ripartì dopo un lungo weekend che sapeva di addio, in prossimità della luna nuova in Toro, durante il quale permettemmo alla nostra carne di fondersi in una massa informe, dai contorni indistinguibili, e alle nostre anime di scrutarsi sotto una prospettiva nuova, quella in cui il futuro non c’era. Nell’appartamento in cui avrebbe abitato ancora due giorni, una nuova entità prese il sopravvento. Arresi alla sua schiacciante presenza, ci sdraiammo e spalancammo le porte dell’anima. Ciò che vedemmo ci abbagliò e ci stordì. I nostri corpi erano poggiati sulle lenzuola, ma le personalità che usavamo per rapportarci con l’esterno si erano sgretolate, lasciandoci nudi. Iniziammo a esaminare i pori della nostra pelle, i nervi delle nostre mani, le imperfezioni sui nostri volti, i contorni delle nostre orecchie.

«Se domani mattina non dovessi avere tempo, vorrei approfittare di questo momento per dirti una cosa. Grazie», disse.

«Di cosa?», risposi.

«La mia testa è piena di rumore, in questo periodo. E tu sei stata l’unico ‘per fortuna’ in un mare di ‘purtroppo’. Sai quei massi che a volte appesantiscono la testa? Alcuni li hai ridotti in polvere, che è stata spazzata via dal vento dei giorni passati, e ora mi sento più leggero. Sei riuscita a conciliare la mia volontà di stare solo, in solitudine, e, al contempo, a darmi questo tipo di compagnia inaspettata.»

Mi ammutolii.

«Tu parli poco. Non hai bisogno di parole.»

Un pugnale mi squartò lo stomaco, impedendomi di generare suoni. Allora lui mi guardò negli occhi, in silenzio, poi iniziò a elencare ogni parte di me, quelle che avrebbe portato con sé. Il colore dei capelli, le sopracciglia, la bocca, le mani, il seno, la mente, i disegni sulla pelle, le gambe, i denti, le rotondità, lo smalto, i piedi, il sorriso, lo sguardo. Poi sprofondammo nel sonno, abbracciati.

La sveglia suonò alle sette, erano trascorse meno di quattro ore. Ancora addormentata, lo afferrai con bramosia, per poi vergognarmi dell’impertinenza con cui agii. Lasciai che si alzasse e si preparasse, prima di venirmi a salutare. Tornò poco dopo. Non avevamo idea di cosa fare, esattamente. Io giacevo ancora con la testa sul cuscino, lui sapeva già di dentifricio e caffè. Le nostre lingue si inseguivano in modo goffo, mentre ci accarezzavamo il viso; il suo era pervaso dalla tristezza.

«Come mi guardi?», chiese.

«Cosa vedi?», risposi.

«Forse desiderio. Forse sentimento.»

«Forse. E tu, come mi guardi?»

«Con la voglia di tenerti con me.»

Nota dell’autrice: “L’episodio è stato rielaborato secondo la mia immaginazione”

Ambra Cavallaro viene da Roma e vive a Berlino, ma presto affermerà il contrario. Lavora da tanti anni come traduttrice e scrive per diletto, forse da sempre. È stato però solo in età adulta che ha deciso di sfidare la sua natura di cancerina e trovato il coraggio di farsi leggere, iniziando a collaborare con riviste di musica e pubblicando long form su Yanez.

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