LA FERROVIA by Laura Nicchiarelli
I coyote non passano più dalla ferrovia: adesso ci sono le ruspe, e gli operai. Con il restauro dei binari e i nuovi treni moderni, l’opera sarà una mano santa per i pendolari sparpagliati nella baia. Me lo ha detto mia nipote, scimmiotta le news che sente alla radio. Io non ci capito mai da quelle parti.
Mi ha chiesto se gli raccontavo una storia, i nonni degli altri ragazzini ne hanno tante, io invece me ne sto muto a giocare a dama. Ci ho pensato in silenzio, troppo a lungo forse: si è avvicinata e ha aperto una manina davanti ai baffi: controllava che respirassi.
Avrei potuto raccontarle di Petunya. Altre storie, di quelle un po’ spaventose e spericolate che piacciono ai nipoti, non ne ho. Ai bambini però non va turbato il sonno con la realtà, o ti diventano ruvidi, pieni di idee deprimenti. Magari finiscono così, arroccati proprio nella vecchia casa dove risiedono gli spiriti che hanno guastato loro l’animo. Io che Mission Street la vedo ormai solo attraverso il vetro della finestra, dall’orizzonte del davanzale, nient’altro che una striscia d’asfalto tra i due sipari di tende. Sono rimasto in silenzio. A volte ho l’impressione di essere l’unico a conservare il ricordo della ferrovia di allora.
Il reverendo ci spediva, a me e a Petunya, a comprare la farina di mais e il vino, e non so se sapesse delle nostre diversioni. Non che ci tenessi a farmi vedere in giro con lei. La odiavano tutti del sentimento sordido e acritico che si dedica al padrone, all’aguzzino, o a sua figlia in questo caso. Non c’era vento abbastanza forte da convincere il reverendo a rinunciare, perché anche a costo di perderci in un tornado lui il suo vino lo pretendeva, e mia madre, beh, non ho mai saputo cosa pensasse davvero. L’ho sempre vista come una bestiola docile e in pericolo perenne. Mi faceva pena, ma provavo anche angoscia: come era possibile che al mondo potessi contare solamente su di lei, un esserino tanto precario.
Intorno alle cinque di pomeriggio, mia madre veniva convocata nello studio del nostro benefattore e io, già scomodo nei panni austeri che ci avevano imposto, con i gomiti appesi al tavolo troppo alto per studiare, mi trasformavo in una statua di gesso. Rigido e muto. Finché la maniglia girava piano nella porta, risputando fuori il corpo di lei ammaccato, sopravvissuto ai tonfi e gli schiocchi che, segregato in sala da pranzo, mi ero imposto di ignorare. Ogni volta pensavo: ecco, stavolta muore. Invece no, con un sorriso che le trapassava il viso come un ago, dall’occhio pesto al taglio sulle labbra, sempre mi diceva: vai a prendere la farina, e porta con te Petunya.
Non era nemmeno graziosa. Doveva avere un paio d’anni in meno di me, che ero senza età perché da noi usava così. Una bambina goffa, con le spalle da vecchia, un corvo. E sciancata, poverina. Ma una storpia può essere provocante, non in modo sensuale, no. Io lo vedevo, il capriccio, o la beffa che metteva nel proprio incedere, qualcosa di vezzoso e volontario che succedeva alla sua anca quando si trainava dietro la gamba sinistra altrimenti inerte, e la ricongiungeva alla destra. Mi toccava aspettarla, ma senza che si capisse che era per lei che mi attardavo.
Quando mi accorgevo che cominciava a sbuffare, a sudare addirittura, mi fermavo e fingevo di contemplare un colibrì che ronzava su qualche betulla. Se Sally, la terza moglie del mormone Jones, si pettinava sul portico della grande casa azzurra e gialla, allora guardavo lei, che davvero mi piaceva.
La nostra meta, prima del negozio, o anche dopo a seconda dell’umore, era un punto isolato della ferrovia, dove non c’erano case a dividere i binari dalla sterpaglia che diventava canyon, e poi foresta. Dall’altro lato della strada si ergeva malconcia la stamberga del barbiere. Nessuno ci andava più, gli si erano guastati gli occhi ed era pericoloso farsi maneggiare con delle lame da un cieco.
L’aria sapeva di oceano, o di spazzatura, a seconda della direzione in cui soffiava il vento, che a volte dirottava i lanci già deboli di Petunya. Si sedeva sull’erba bruciata, spalle alla recinzione metallica, il visetto di iena tutto illuminato –anche lei, in fondo, godeva a sfuggire dal dolore gotico di quella casa – e mi passava il pallone da football da oltre la ferrovia. Io lo afferravo al volo lanciandomi quasi oltre il limite dei binari. Esprimevo la gioia sproporzionata per quell’unico piacere grugnendo per lo sforzo, o buttandomi a terra anche quando sarebbe bastato correre.
Altre volte però mi saliva la rabbia. Per mia madre, ridotta a un mucchio di ossa tumefatte e superstizioni, per i nonni lasciati a ubriacarsi nella riserva.
Non riuscivo a trovare un senso alla mia presenza nel mondo, né alla prigionia interrotta solo da quelle spedizioni con Petunya. Almeno una volta al mese vedevamo il coyote. Abbastanza ingenuo, a pensarci ora, credere che fosse sempre lo stesso, solo perché noi eravamo gli stessi. Del tutto simile a un cane si sbrigava ad attraversare i binari, raccontandoci con gli occhi di una fame libera e di una libertà famelica, al di là della recinzione, sulle creste dei canyon. O sennò, a seconda dell’orario, capitava di vederlo tornare con un topo in bocca e lo sguardo finalmente più domestico. E quando la rabbia si faceva tristezza immaginavo ci fosse lo spirito del nonno nel corpo dell’animale, perché da sempre le nostre leggende parlavano di anime nomadi, ospiti di lupi, orsi, bestie attraverso i quali poter vivere in altra forma.
Ero appunto tra rabbia e tristezza quel pomeriggio. Alle mie spalle cominciai a sentire il respiro affannoso di quella palla al piede di bambina. Non mi girai. Tirai dritto fino alla ferrovia. Avevamo fatto presto a comprare il vino, ci rimaneva un po’ di tempo per giocare e non avevo misericordia per la debolezza della mia complice.
Petunya mi raggiunse senza lamentarsi, con la sottana sporca di terra perché già era caduta. Io tiravo la palla per conto mio scagliandola sulla recinzione. Perché mai mia madre si ostinava a pettinarla con le trecce? Non era mia sorella né sua figlia. Non aveva i nostri zigomi alti, e nei suoi gesti non c’era nobiltà.
Siccome le avevo per così dire rubato la postazione, lei rimase in attesa, impalata dall’altro lato della strada. Il suo era un silenzio subdolo, tra supplica e derisione. Motivo per cui continuai a tirare e a tirare.
Era un sollievo sfogarsi così, senza le regole del vero sport che si giocava nel cortile della chiesa, dove bisognava mantenere l’onore di fronte ai compagni.
L’ultimo lancio fu molto potente e la palla rimbalzò all’indietro, in direzione di Petunya. Volevo continuare a darle le spalle, sentivo che c’era un valore il quel nostro silenzio, nel tenere il punto, io di spalle e lei in attesa oltre la ferrovia. Rinunciai a recuperare la palla, e raccolsi un bastoncino per accanirmi direttamente contro le maglie di ferro. Mi sentivo un selvaggio, e certo lo avevano detto: ci avrei messo un po’ ad imparare la città. Mia madre diceva che dovevamo essere per sempre grati al reverendo, che ci aveva strappati dalla miseria, ci aveva protetti dal freddo e ora potevamo vivere nella sua casa dove tutti i giorni si mangiava carne.
Come se noi di carne non ne avessimo mai mangiata, arrostita sul grande fuoco al centro del villaggio. Che importava se a volte era solo un procione, come quello che da mesi si decomponeva sulle rotaie alle mie spalle. Per come era ridotto, non era più buono neanche per gli avvoltoi. Nessuno si decideva a rimuoverlo, nei dintorni ci viveva solo il barbiere, mezzo cieco ormai.
Questi pensieri mi colpivano la nuca mentre martoriavo la recinzione con il legnetto ormai ridotto a un moncherino, quando sentii una gradazione di affanno diverso nel respiro di Petunya alle mie spalle. Nel girarmi una folata di corrente e di polvere mi chiuse gli occhi.
Li riaprii che lei era già a terra: accoccolata tra i due binari, cercava di alzarsi tirandosi dietro la gamba lesa. La palla giaceva ai suoi piedi. Aveva tentato di tirarla, uno dei suoi lanci insufficienti, che infatti era atterrato a metà strada tra lei e me, al quale era forse diretto come segno di pace. Era andata a raccoglierla, ma ora non capivo perché rimanesse chinata così, in moto lentissimo verso il lato della strada da cui era inciampata. Poi vidi la ghetta bianca incastrata nel segmento di ferro, era questo che la bloccava. Quelle ridicole calze che il padre le riportava dai viaggi in Europa. Trovai la cosa molto buffa, finché non proseguii con lo sguardo sulla rotaia arrugginita, seguendola oltre alla carcassa del procione, lì dove nell’aria opaca di polvere faceva capolino la sagoma di una locomotiva. La tratta era già considerata fatiscente, non avevamo mai visto un vero treno sulla nostra ferrovia.
Guardai Petunya, la quale strattonandosi ancora dovette riconoscere la propria fine imminente. Optò per una resa pacifica.
Mi rivolse però un ultimo sguardo, un’occhiata pura, di intesa e di tenerezza. Anche di trionfo: quel pericolo fantasma e finora immanifesto, il treno, dava una dignità inattesa ai nostri giochi.
La bestia meccanica si avvicinò sferragliando e la travolse senza un suo grido.
Quella notte il reverendo picchiò a lungo mia madre.
Portarono via ciò che rimaneva del corpicino di Petunya, io recuperai il pallone schiacciato. Anche il procione fu rimosso, e i coyotes disertarono la ferrovia.
Sono Laura Nicchiarelli, made in Rome in ‘91, esportata a Londra e poi brexitata a Milano. Ho frequentato i workshop Londra Scrive di Marco Mancassola, il corso "realtà e finzione" con Antonella Lattanzi alla Holden, e sono stata finalista al Solinas 2022 con la sceneggiatura di animazione "Due come noi", storia di istrici monogami alle prese con i danni collaterali dell'intelligenza. I miei racconti sono pubblicati su l'Irrequieto, Genius, e inutile.rivista.