L’ESPLOSIONE DI UNA STELLA by Luigi Anania

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Noi gente di mondo seduti allo stesso tavolo davanti il cielo di Roma disquisivamo sul quel che ci girava intorno; vicino a me c’era un uomo altissimo che se montava su un cavallo pareva il re in persona e accanto a lui Diamante, una donna dai capelli neri e una mise rossa appena arrivata da Londra; dall’altra parte del tavolo una principessa indiana statica e illuminata come se un’invisibile volano le accendesse una luce nello sguardo; a capotavola due americani, uno con un muso da roditore sempre in preda alla paura di non essere considerato e l’altro che si crogiolava nel suo ruolo di gregario e parlava solo se gli veniva richiesto. Eravamo tutti appassionati amanti del destino e delle sue sorprendenti contraddizioni. A prendere la comanda veniva la padrona stessa del ristorante, un diavolo con una cresta vibrante di capelli ricci, lo sguardo spiritato e l’incedere disinvolto da donna di mondo. Il re la guardava e intanto ci suggeriva argomenti da condividere insieme al pasto e al vino; con la sua voce lieve e le risate che rimbombavano come se provenissero da una caverna di vapor acqueo, amalgamava i commensali gli uni agli altri. Io ero fiero della luce che la principessa indiana irradiava su di me e a volte m’inserivo nella conversazione con frasi di cui omettevo qualche sillaba per un eccesso di enfasi che mi coglieva d’improvviso; poi entravo in un corto circuito emotivo che mi portava a delle temporanee sordità dalle quali uscivo dicendo la parola giusta nell’intervallo giusto. In un momento di grandi risate arrivò mio cugino Franco con il suo passo asimmetrico e il sorriso spaesato nel bianco dei suoi baffi; si sedette accanto a me sotto una luce che creava un illusione ottica di tende che gli scendevano sugli occhi; il re lo guardò e incominciò a parlare di astronomia, di stelle e di corpi celesti, un argomento che aveva sempre entusiasmato mio cugino causandogli degli orgasmi istantanei all’interno dei suoi larghi pantaloni di lana; quando poi il re parlò dell’esplosioni di una stella avvenuta pochi anni addietro il corpo di mio cugino incominciò a tremare finché tutto il suo essere si arrestò con uno spasmo.

“Una notte— raccontava il re muovendo i lunghi arti snodati— il cielo fu illuminato da una luce turchese che si diramava con capillari luminescenti nel buio; i filamenti di luce viravano dal turchese al verde e tutto il luminoso insieme schiarì il paesaggio per quindici notti; gli uomini e le bestie guardarono quella luce colorata che si espandeva su tutte le cose e si chiesero come fosse possibile che al tramontare del sole non seguisse il buio”. Noi tutti ascoltavamo incantati dalla voce del re e dalla descrizione di quella luce fin quando fummo colti da un fremito che ci attraversò all’altezza della vita come se fossimo un unico corpo; mio cugino si tolse la giacca con un inspiegabile grugnito e io sentii una stretta in gola che m’impediva il respiro; negli occhi degli altri vidi una paura come se la luce di cui ci parlava il re fosse un chiarore che s’ingrandiva annientando le forme di ogni cosa. Gli occhi della principessa indiana risplendevano come sempre ma delle ombre trapassavano il suo sguardo che diveniva vuoto e distante; l’americano con il muso da roditore continuò a parlare abbassando sempre più la testa e tutti gli altri rimasero in silenzio. A un certo punto Diamante muovendo entrambi le mani verso un lato della strada come se stesse suonando un’arpa c’invitò ad ascoltare un mormorio confuso e distante e disse: ”Anch’io— disse —ho visto quella luce nei cieli di Londra; una sera in una delle piazze più belle della città, apparve una luce verde turchese mai vista prima; tutti fotografarono il cielo colorato e si spaventarono quando videro quella luce espandersi ed annullare ogni essere vivente; la mattina seguente per le strade di Londra si diffuse lo stesso mormorio che proviene adesso da questa strada”. In effetti anch’io, come gli altri commensali, avevo sentito dai telegiornali che una settimana fa una stella era esplosa nei cieli di Londra e mi spaventai quando seppi della gran quantità di raggi cosmici che arrivava sulla nostra pelle in seguito alla disgregazione di un astro; per giunta tutti gli organi di informazione scrissero di scottature, arrossamenti, e malformazioni e i giornalisti in preda alla paura incominciarono a non distinguere le notizie provenienti dal proprio mondo onirico da quelle reali; a un certo punto si diffuse la notizia dell’arrivo di una nebbia gialla pregna di virus e di particelle luminose nocive al sistema nervoso di ogni essere vivente. Nel frattempo il re ricominciò a intrattenerci e quando raccontò del suo ultimo viaggio intorno al mondo e del suo incontro con il patriarca di Costantinopoli, mio cugino sussultò e grondando sudore per l’emozione disse che anche lui era stato a Costantinopoli ed aveva cenato con il grande patriarca; allora il re per distogliere gli sguardi dalle gocce di sudore che bagnavano la tovaglia cambiò argomento e introdusse il tema della passione amorosa nella canzone partenopea, intonando una melodia conosciuta dappertutto; Diamante disse che alcune canzoni partenopee trasmettevano la stessa melanconia di certe canzoni argentine e io dissi con un’enfasi fuor di luogo che nelle canzoni argentine, ricorreva più spesso il sentimento dell’abbandono; mio cugino Franco si chinò sui due americani e imbastì un discorso sul mercato internazionale del vino, ma a un certo punto le parole di un argomento si confusero con quelle di un altro argomento e gli occhi della principessa indiana irradiarono una luce chiara che riportò il silenzio; anche i commensali degli altri tavoli tacquero finché il re con un ampio movimento si rivolse al cielo e ci indicò le stelle e le costellazioni; il suo volto ruotava come un compasso sulla volta celeste e noi tutti ruotammo affascinati dalla bellezza degli astri fino a quando risentimmo un brusio inquietante e noi stessi incominciammo a mormorare agitati dalla stessa paura; il corpo del re si scompose e mentre descriveva la costellazione del grande carro, il suo viso cominciò ad allungarsi su una linea verticale mentre la voce non articolava più parole ma suoni in cui ogni senso svaniva. Tutti quanti guardammo la principessa indiana in cerca di una spiegazione ma anche il suo viso perse significato; il discorso del re divenne un canto acquatico di un grande mammifero di mare in cui a tratti si distingueva il nome di qualche stella. Il nostro tavolo attirò l’attenzione di tutti i commensali che guardarono il re come se fosse un artista di strada. L’ostessa portò al nostro tavolo un pesce accompagnato da una magnifica scenografia di spezie esotiche ma una volta lasciato il vassoio anche lei si fermò a guardare le trasformazioni del re che diventava irriconoscibile; il suo viso andò incontro a mutazioni continue sull’onda di un soffio vitale che sembrava averlo preso come bersaglio; tutto il suo essere si tramutava in versioni comiche di mufloni, cernie , cani, corvi, zebre o polpi con la folta chioma che partecipava ai cambiamenti diventando di volta in volta corna, branchie, ali, criniere, tentacoli o denti; tutti gli ospiti del ristorante rimasero incantati dall’anima del re che prendeva la forma di altri esseri viventi finché una risata gorgogliante lo riportò alla sua parvenza originaria illuminata da una luce che lo rendeva trasparente. Quando io e Diamante lo interrogammo dalla sua bocca fuoriuscì una bolla e un arrivederci e d’un tratto scomparve del tutto nella penombra. L’apparenza incorporea ci lasciò interdetti e ancor di più ci sbalordì la sua dipartita; ci chiedemmo se il suo mutamento fosse una scomparsa e ci tornò in mente la luce che si espandeva nei cielo e che annientava le forme di ogni essere vivente. Ricordammo i malesseri descritti dai giornali sugli effetti dell’esplosione di una stella e la grande quantità di raggi cosmici che arrivava dal cielo; ci tornarono in mente le notizie di arrossamenti, gonfiori e melanomi, poi quando la paura prese il sopravvento ognuno perse il controllo e descrisse immagini che passavano dai sogni alle coscienze in un moto circolare continuo. Le notizie illuminate e folli che risplendevano sui grandi schemi lungo le facciate degli edifici si confondevano con parole provenienti da ambiti del tutto diversi come la meteorologia e la politica; negli annunci meteo si riparlava di una nebbia, una nebbia gialla, tossica, densa di microrganismi, una nebbia cerebrale, una foschia che impediva i ragionamenti e le conversazioni. Qualcuno incominciò a pensare alla progressiva fine di ogni cosa e alla presenza di anime che aleggiavano per qualche giorno in balia del vento tra i passanti spaventati. Tra le voci spaventate si distinguevano le notizie di persone che in preda al panico, perdevano la capacità di comprensione del rapporto di ogni cosa con la sua funzione; Diamante ricordò che un giorno mise le camice in frigorifero e ripose gli alimenti negli armadi e la principessa indiana raccontò che in quei giorni si svegliava e non riconosceva la sua camera da letto. I commensali intorno ascoltavano i nostri discorsi mentre l’ostessa annunciò l’esplosione imminente di un’altra stella e andò via; noi ci salutammo colti ognuno da una propria sintomatologia neurovegetativa; mio cugino incominciò a traspirare così tanto che dava l’impressione di liquefarsi, i due americani si accartocciarono, finché andarono via ambedue ricurvi e muti. Diamante si afflosciò e perse la postura di donna di mondo; io andai via dicendo “benvenuti” invece di “arrivederci”. La principessa indiana mi seguì mettendomi una mano sulla spalla e insieme attraversammo i vicoli affollati di gente che ripeteva cose già dette. Intanto il brusio proveniente dalla piazza era diventato un insieme di voci che si espandeva fra i vicoli, i terrazzi e i balconi, un gran vociare animato dalla paura e da un desiderio di comunità senza precedenti; noi stessi avevamo quel desiderio di ripeterci le stesse domande e di condividere le stesse ansie e le stesse rassicurazioni. Una volta arrivati a casa sentimmo delle grida di paura mischiate alle voci di scherno di chi riproduceva i sintomi delle malattie derivanti da fenomeni astronomici; burloni e donne stravaganti deformavano le facce e assumevano espressioni dementi e intanto andavano e tornavano trasformando la paura in gioco. Tra di loro c’era il re, questa volta nella veste di un vero e proprio artista di strada che saltava in aria e nel punto più alto del suo volteggio si fermava sullo sfondo del cielo come per l’effetto di un incantesimo; i suoi passi fuori misura, i suoi salti, le sue capriole in aria contribuivano all’atmosfera mista di paura e di gioco. Anche io e la principessa sentimmo un rinnovato spirito di comunità animato dalla paura di un evento astronomico, ma nel cielo non apparve niente e dopo qualche mese ognuno tornò nei propri nuclei familiari. In ogni strada ritornò un clima di vivace tranquillità e ci si salutava e sorrideva come sempre; all’ora di pranzo si sentiva un cortese ronzio e ogni tanto si riconoscevano le voci di chi parlava roteando la testa in aria, di chi diceva cose volgari alle signore anziane o di chi entrava nelle farmacie chiedendo delle sigarette, tutti i pazzi di cui ormai conoscevamo il corredo di stranezze. Ma trascorso qualche mese di tranquilla convivenza apparvero delle nuove figure di persone conosciute come persone a modo, che acquisirono un aspetto trascurato e da un giorno all’altro diventarono degli strilloni che diffondevano la notizia di una tempesta di luce e di detriti spaziali; anche qualche addetto all’informazione annunciava ogni tanto eventi pericolosi e su alcuni schermi apparve un meteorite illuminato che precipitava sulla città; ma ormai le luci e le notizie allarmanti non sortirono l’effetto sperato e la comunità non si scompose. A una festa di un elegante palazzo del centro, Diamante e la principessa indiana, ambedue appassionate di psiche e di cronaca mondana, dissero di rimpiangere l’atmosfera mista di paura e di gioco con il re saltante tra la folla ma che appezzavano il clima di ritrovata tranquillità; Diamante disse sorridendo di avere ritrovato il piacere dell’osservazione e la principessa indiana aggiunse che le grida di chi annunciava eventi catastrofici non guastavano la bellezza della sera; anzi quegli uomini e quelle donne che avevano assunto un aspetto trasandato e che di punto in bianco erano diventati cittadini pazzi avevano destato la sua curiosità; da qualche giorno li osservava dalla finestra e li vedeva girovagare con gli sguardi rivolti in alto come se cercassero fra le nuvole le ragioni delle loro paure; la sera prima un suo amico cronista in pensione dal ciuffo sproporzionato rispetto alla bassa statura, gridava al cielo di avere un arsenale capace di frantumare l’universo; dietro di lui cinque seguaci scapigliati e scalzi invitavano la popolazione all’assalto del nulla che inondava di sé il tempo ed il pensiero.

Luigi Ananìa è laureato in scienza agrarie all’università di Firenze, scrive e fa vino rosso in Toscana. 

Nel 2000 ha pubblicato “Il signor Ma” (Pequod), nel 2004 ha scritto e ha curato con Silverio Novelli l’antologia di racconti sul vino “Confesso che ho bevuto” (DeriveApprodi), nel 2005 ha partecipato all’antologia su Roma Allupa Allupa (DeriveApprodi), nel 2009 ha pubblicato la raccolta di storie di emigrazione e cultura contadina Avant’ieri (DeriveApprodi), nel 2011 ha pubblicato “Cos’è questa nuvola” (Italic), nel 2012 ha scritto e curato con Silverio Novelli “Pixel, la realtà oltre lo schermo dei media” (DeriveApprodi), nel 2016 ha scritto con Nicola Boccianti “Storie di volti e di parole” (DeriveApprodi). In passato ha scritto racconti per Maltese narrazioni, Il semplice, Nuovi Argomenti. Recentemente a ha pubblicato Bestiario umano. Storie sugli esseri viventi con Nicola Boccianti per DeriveApprodi.


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