NOTTE PIÙ BUIA di Antonio Pilato
Estratto del romanzo Incubi grotteschi di esiliati sognatori - Racconti (Mario Vallone Editore)
Quando sono immerso nella notte più buia, la luna splendente nel cielo stellato mi ricorda un filosofo che compie continue analisi sulla pragmatica razionalità.
Raramente la notte più buia compare nella veglia di un uomo ma, quando succede, avviene l’inevitabile. La notte più buia di per sé non si presenta oscura poiché addobbata dalla candida luce lunare e da milioni, forse miliardi, di stelle.
Se dovessi paragonarmi a un esteta, affermerei senza alcun dubbio che la notte più buia abbia una parvenza romantica, intrisa di misterioso fascino anche grazie alle fioche luminescenze celesti.
La notte più buia potrebbe persino toccare la seduzione perché la sua natura è esteticamente gradevole. Esteticamente.
Ma io non sono un esteta e non gradisco affatto la notte più buia.
Se fuori tutto brilla senza disagio, dentro avviene l’esatto contrario: le ansie per l’ignoto si nutrono del vacillante coraggio umano e cominciano a crescere in macabri spasmi; da spasmi regrediscono in rachitici timori e, alimentandosi a vicenda, si trasformano in pura paura.
In questo momento sono adagiato, immobile, nella mia casa e più precisamente sul letto della mia camera: attorno a me si sta manifestando un silenzioso pandemonio di divoramenti tutt’altro che onirici, mentre ai fianchi del mio giaciglio divampa un fuoco nero che sta facendo crescere in me un terrore inimmaginabile. Il desiderio incessante di alzarmi per accendere un lume e interrompere immediatamente ciò che sono costretto a guardare è forte, ma non sufficiente a darmi l’effettiva forza di alzarmi. E mentre le fiamme nere avanzano, la porta si sta chiudendo con un impercettibile spostamento che sono convinto completerà prima o poi la sua manovra semicircolare. Una volta che la porta della stanza da letto sarà definitivamente chiusa, lo stesso scorrimento toccherà anche alla chiave che, durante la notte più buia, è curiosamente inserita nel lato della serratura rivolto all’esterno: quando lo scatto della chiave risuonerà nel buio, probabilmente sarò già morto.
Non potendomi muovere dal letto, osservo con mestizia il fumante candelabro spento: del resto, la notte più buia è abituata ad avanzare con dolce tirannia verso ogni cosa, nutrendosi di luce e accrescendo l’ombra.
Sposto ora la mia attenzione su un’umbratile figura, un qualcosa che in questo momento sta rovistando nel mio armadio di legno; tuttavia, i miei occhi non riescono a fissare quella cosa se non per pochi secondi. Il motivo è semplice: se fissando la lucentezza del sole troppo a lungo si rischia la cecità, fissando l’oscuro bagliore di una creatura abissale si rischia la pazzia.
Stando sotto le coperte, soltanto la sfibrata tela mi difende ormai da quella figura, mentre nella notte più buia larve di altri mondi si nutrono senza sosta dei miei pensieri più ribelli senza darmi alcuna possibilità di salvezza.
É arrivato il momento, il momento in cui anche l’ombra si è accorta di me. Mi sta fissando.
La cosa più terribile in tutto ciò è sapere che non sia la paura a paralizzarmi ma altro: sono disperatamente sveglio, provo tremori e spasmi ovunque, formicolii che mi fanno immaginare inquietanti banchetti con miliardi di formiche come commensali, rosse come il mio sangue.
Le fiamme nere stanno avanzando verso il mio letto.
Silenziosamente, la notte più buia orchestra come un’abile burattinaia i movimenti dell’oscura presenza, oramai ai piedi del mio letto, quando strani borbottii destano la mia e la sua curiosità: quattro gufi, strambi animali che vengono da terre lontane e ricche di saggezza, stanno commentando come comari appollaiati sul cornicione della finestra ciò che sta succedendo. Qualche volta, mi capita di udirli nei loro bubolii e ciò che la mia mente traduce è un’arcana lingua, ricca di significati che egoisticamente preferirei non condividere; tuttavia, queste conversazioni silvane le odo soltanto quando la notte più buia si manifesta in tutto il suo splendore estetico e in tutto l’orrore intrinseco.
In compagnia del bubolare dei gufi, mi giunge anche il più quieto suono del grigio fiume che ruralizza tutta l’area di Gau Iluna, in cui trascorro i dissapori della vita: una grave cacofonia che picchietta come uno scalpello sul mio cuore, armonizzandone e bilanciandone il battito.
I gufi, appollaiati sul cornicione della finestra socchiusa, si osservano fra loro, incuranti del fatto che la misteriosa sagoma si sta dirigendo proprio verso di loro. Accortisi, forse troppo tardi, dell’inesorabile avvicinamento della figura d’ombra, i piccoli volatili sembrano totalmente paralizzati dalla paura, immobili come stiliti. Sicuramente, si staranno già pentendo di aver messo inavvertitamente becco in faccende a cui sarebbe meglio non interessarsi.
Osservando l’avvicinamento dell’oscuro essere pare che essi, pur avendo rudimentalmente compreso l’identità della follia che li farà ben presto suoi, non riescano a reagire in alcun modo, restando inebetiti di fronte a un terrore estraneo, sconosciuto, capace a quanto pare di bloccare ogni volontà.
Mentre i gufi attendono beoti il loro destino sul cornicione della finestra, il fuoco nero si fa sempre più vigoroso nella notte più buia, scricchiolando sul parquet come un intenso rogo su possenti tronchi di quercia. Le fiamme, alzandosi con imperio ai lati del mio letto, si stanno trasformando in un inquietante baldacchino di morte e il tempo, di natura meschina, si sta deformando fra gli ingranaggi dell’orologio a pendolo di Zuzana, appeso alla parete della stanza: l’oscillante protuberanza di ferro volteggia come il fendente di una spada rivolto a un appetibile nemico.
Ora, l’aria che entra ed esce dai miei polmoni non è più quella delle zone di collina, pura da ogni male inquinante: ciò che sto respirando e che mi tiene in vita è un cumulo di impresentabile etere che, abbandonato il cosmo regnato dalle stelle nere, scaturisce la propria essenza dal fuoco nero. Del resto, nella notte più buia è questa l’unica aria che si può inalare, che si può ascoltare, che si può vedere: l’aria fatta della stessa materia di cui è composta la matrigna nottata che libera le mie paure e che con le sue particelle trasforma ciò che è geometricamente materiale in dimensioni surreali.
Dalla parola ‘aria’ il mio pensiero volge improvvisamente alla parola ‘sangue’, forse a causa di ciò che sto scorgendo sulla soglia della finestra.
Sangue.
Anche il sangue è un elemento rilevante nella notte più buia. In tal caso, non mi riferisco alla tipica emoglobina ossigenata che ricorda il colore di un vino dolce, ma piuttosto a quella sostanza densa e oscura che, pur identificandosi nel sangue povero di aria respirabile, non sembra altro che un grezzo ammasso di argilla nera. Sì, anche se le sfocature umbratili non mi permettono di esserne totalmente sicuro, è questo il macabro materiale che potrebbe comporre la forma e la sostanza della sagoma umanoide: in questo momento, a ridosso della finestra, sta divorando uno dei gufi appollaiati sul cornicione. “Scappate, idioti!” penso e ripeto incessantemente nella mia mente, dato che la notte più buia sembra avermi privato dell’uso della parola, ma l’insidiosa sagoma non può sentirmi e continua, in maniera egoistica, il suo tetro pasto. La scena è colma di inquietudine e sento che una lacrima piena di empatia sta colando dall’occhio, irrorando a poco a poco la mia guancia, per l’immeritata sorte toccata a quel povero animale.
Se la situazione è angosciante, sempre più ottenebrante è il mistero per il quale i vellutati compagni giacciano in maniera del tutto catatonica a fissare il nulla mentre il corpo del loro compagno viene sbudellato dalle fauci di quella cosa offuscante.
Ad ogni modo, la lacrima è rivolta anche a un limitato sollievo personale poiché mi sento più fortunato di loro, senza dubbio più fausto di quelle forme di vita volanti: stazionano in maniera così idiota sul cornicione poiché devono aver visto o compreso cose che io non posso neppure immaginare.
I pensieri si fanno sempre più neri e ragiono a fatica.
Penso a strapiombi di infinità profondità, a luoghi occulti, a crimini compiuti in altre vite, ormai dimenticate.