ESTATE A PUNTA SECCA by Alessandro di Robilant

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La cucina della villetta a forma di quadrifoglio che ci ospitava, aveva una vita a sé. Si apriva su un terrazzo rialzato che guardava sull’orto, circondato da alberi di glicine, dove vagavano animali da cortile misti a cani e gatti d’incerta provenienza, in una curiosa convivenza pacifica. Una sorta di tregua interraziale. Lo Zio Ciccio, divertito dal vedere cani, gatti, galline e oche assieme ai randagi, la chiamava “la tregua del pane”. La certezza di almeno un pasto al giorno aveva indotto le varie razze alla convivenza pacifica.

Tornato dal mare, mi fermavo in cucina a osservare l’imprecisato numero di donne che vi lavoravano. Ne conoscevo solo una parte. L’altra sembrava darsi il cambio, a pranzo il primo turno, a cena il secondo. Era formato principalmente da mogli, figlie e parenti dei mezzadri impiegati dallo Zio. Vivaci e rumorose, stavano allineate, sedute su dei seggioloni di paglia lungo il muro della cucina.

Mi piaceva guardarle spennare polli, pulire lattughe, spezzare fagiolini, sbucciare piselli e fave, stendere lenzuola in un moto perpetuo e sapiente. Mani sicure, sguardi vivaci, furtivi, improvvisi scoppi di risa sguaiate a seguito di qualche commento in siciliano stretto di cui ignoravo il significato. A un tratto rimasi stordito e affascinato dall’improvviso irrompere della morte. Anna, la cuoca ufficiale di casa, usciva dalla cucina in tutta la sua mole, impugnando un arnese, una via di mezzo tra una roncola e un machete; scese stancamente i tre scalini che portavano all’aia e, con gesto fulmineo, sorprendente in una donna di quella stazza, agguantò un’anatra. Tornata sui suoi passi, assicurò l’animale con un cappio alla ringhiera. Gli dava le spalle, come per tornare in cucina, avanzò di due passi e in un solo movimento si voltò e menò un fendente che gli fece volare via la testa. Seguì una scena che mi sprofondò in uno stupore paralizzante. Il povero animale prese il volo liberando dal collo un fiotto di sangue che si sparse sulla superficie del terrazzo. Non ne capivo la dinamica. Avrebbe dovuto, secondo la mia percezione dell’ordine delle cose, stramazzare al suolo immobile. Ci volle quello che a me sembrò un tempo interminabile prima che l’animale rovinasse a terra.

Vidi che ciò che a me era sembrato un evento terribile e straordinario, non aveva richiamato l’attenzione di neppure una di quelle donne. Continuarono imperterrite le loro attività come nulla fosse. Quell’anatra fu il mio primo morto. E non mi piacque per niente.

Mi piacevano invece i polpettoni di carne, gli spaghetti con pomodoro ricotta e melanzane fritte che arrivavano a tavola a giorni alterni e la granita di gelsi e melone che chiudeva il pranzo sotto la veranda. Il caldo stordiva a quell’ora. Questo imponeva una pratica che odiavo: la siesta. Durava un’ora. Su questo i nonni erano inflessibili. Dalle tre alle quattro di pomeriggio. Non ci si alzava mai da tavola prima di quell’ora. Orari stravaganti per noi del nord. Gli scuri socchiusi, me ne stavo ad occhi aperti, nella penombra della stanza condivisa con mio cugino Andrea, e con la mente impegnata su due fronti. Una parte contava i minuti mancanti, l’altra trasformava il mio letto in un’auto da corsa impegnata nelle curve della targa Florio. Il bordo rovesciato del lenzuolo era il cruscotto, il resto del letto era il cofano di una Porsche barchetta. Il cuscino, maneggiato da volante. Il resto lo facevo io: motore rombante, pubblico in delirio, lo stridio delle gomme in uscita dalle curve, i cambi di marcia, le accelerazioni, le brusche frenate.

Finita la siesta, una liberazione, inforcavamo le biciclette e ci spargevamo per le viuzze del paese. Quelle ore pomeridiane passate a gironzolare sulla mia bicicletta azzurra (ogni anno cambiava il colore, ma non la bicicletta) erano le ore della tentazione.

Come la nostra, le case del paese ospitavano un cospicuo numero di parenti che venivano da “Fuori”. Il che poteva significare, a differenza che a casa nostra, semplicemente da un’altra provincia. Di coetanei e soprattutto coetanee ce n’erano tante. Le età variavano dai cinque ai diciassette anni. Ma come le tre sorelle di Ragusa non ce n’erano. Ero innamorato di tutte e tre. Tutto di loro mi affascinava. A partire dal nome della via in cui abitavano: Via Ecce Homo. Suscitava in me confusi scenari esotici in cui mi vedevo protagonista di una passione travolgente che ci univa. Incapace di scegliere una preferita, le amavo tutte. Il problema era che avevano rispettivamente diciotto, venti e ventitré anni contro i miei otto. Per fortuna, a quell'età, della ragione te ne freghi. Ero sicuro che prima o poi avrebbero ceduto e avrei avuto il mio harem. Giovanna portava gli occhiali e aveva le labbra rosse, Maria aveva i ricci e le labbra rosse e Rosaria era bionda con gli occhi blu.

Qualunque fosse il percorso, la bicicletta finiva col portarmi verso casa loro. Era più forte di me, la bicicletta. La ritenevo responsabile di quel girare concentrico, per ellissi, sino a trovarmi a passare, lo stomaco in subbuglio, davanti alla porta di casa loro. Era Giovanna, la più grande, a parlare con me. Le altre due si limitavano a guardarmi con il sorriso enigmatico della gioconda. Che diceva tutto e niente. Tremavo come una foglia, dentro. Avevo paura di tradirmi. Che i muscoli facciali rivelassero la plateale verità: un cuore in tempesta. Avevo le gambe molli e vedevo avvicinarsi lo spauracchio del ridicolo. Temevo di perdere l’equilibrio e che nello sforzo di restare in pedi mi scappasse un peto. O che una caccola del naso fosse lì in bella mostra a mia insaputa. Tale era il mio impegno a fugare le insidie che non ascoltavo quello che Giovanna diceva: “Ci vieni alla Capannina stasera?” mi chiese. E aggiunse: “Hai sentito? Vieni con noi?” mi parve vedere nel loro sorriso una promessa di voluttà.

Presentarmi alla “Capannina” in loro compagnia significava prestigio illimitato. Era uno chalet di legno, provvisorio, che poggiava sulla spiaggia, proprio sotto il faro. Era sala da ballo e bar per i villeggianti. Vivevo l’entrata nel locale come una cosa molto adulta. Ci venivano tutti. Si ballavano le hit dell’epoca.

Allora spopolava “Rose rosse” di Massimo Ranieri. Ma la malapianta della delusione è sempre in agguato. Passai le ore precedenti all’appuntamento con le tre sorelle in uno stato di ebbrezza, come ubriaco. Non riuscivo a stare fermo, guardavo l’orologio in continuazione, a contare i minuti che non passavano. Ero travolto dall’emozione della serata che mi si prospettava. Tornato a casa, mi concentrai su un formicaio situato a metà del vialetto che portava alla strada. Puntavo una formica alle prese con un carico dieci volte più grande di lei e ne seguivo affascinato le peripezie per riuscire a portare il bottino alla meta. Ne ammiravo la pervicacia nel superare le mille difficoltà. Ne intravvedevo una metafora sulla vita dei comuni mortali. E arrivò la sera. Era ora di andare. Raggiunsi il cancellato di casa che dava sulla strada, e tornai indietro. Non ce la faccio — pensai — e se inciampo mentre entro? E se mi scappa un peto? No… non ce la faccio.

Fui colto dal terrore del ridicolo. Mi accadeva spesso, da quando avevo scoperto l’altra metà del mondo. Tornai mesto sui miei passi e mi sedetti al buio, sugli scalini della veranda. Immaginai di essere Ninni Noto, l’atletico dottore della guardia medica. Non vi era donna capace di resistergli. Le conquistava tutte, locali, straniere, vecchie, giovani, alte, basse, magre o in carne. Tutte. E come tutti i personaggi appartenenti alla mitologia, Ninni appariva in sella a una moto da velocità, o alla guida di una due posti di marca inglese, o a bordo di un motoscafo con cui cavalcava indomito le onde in mare aperto. Ninni non si fermava mai. Passava come una ventata, lasciando al suo passaggio meraviglia e un esotico profumo di lavanda. Eravamo tutti innamorati di lui. Volevamo essere lui. E le poche volte che si fermava a parlare era sempre gentile e affettuoso. Ninni morì giovane, come tutti i miti. Alla “Capannina” poi ci andai, ahimè. E il sogno si trasformò in realtà. Mi ritrovai seduto sulle ginocchia di Giovanna che era venuta con Ninni, suo attuale fidanzato, con Maria e Rosaria accompagnate anche loro, attorno ad un tavolino a fare la “Mascotte”, il grazioso gingillo…

Ci volle l’arrivo della pubertà per riprendermi dall’umiliazione. Come ho detto imperversava la canzone “Rose rosse”. Mi guardai attorno. Se fratelli, cugini o amici mi avessero visto in quella situazione, ero finito. Da simpatica mascotte di un gruppo di adulti, al ruolo di zimbello il passo era assicurato. Mi avrebbe rovinato le vacanze e anche oltre. Massimo Ranieri mi venne in aiuto. Sorelle e fidanzati si alzarono per andare a ballare, dandomi modo di eclissarmi senza scalpore. Scivolai fuori dal locale e guadagnai il buio. Giurai a me stesso che non avrei mai più guardato una donna in vita mia. Non faceva per me.

Meglio studiare la natura, gli animali, gli astri. Mi sentii umiliato, ridotto alle dimensioni di quegli scarafaggi con cui, coll’amico Carmelo, facevamo le gare sulle dune sabbiose davanti a casa.

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