NEBBIA by Elisa Teneggi

Il fischio è più intenso, stasera. Te ne accorgi per le grandi modulazioni. Per i lamenti curvati, per gli alfabeti arcaici. Da non vederne l’inizio ma la lama giunge proprio qui, incespicata sulle onde che bizzano il dipolo di questo scassone che scricca che sgnicca e che è l’unico extrame da quando si è alzata la nebbia. Eh, la nebbia! Si è cominciato con il cielo, color fofó smarmellato nosfumature e quando era pronta è salita con l’odore, il puzzo di un risveglio che prende dalla terra, rude, frigido, unto, meraviglio. Eh, la nebbia si è alzata con me in mezzo. La stazione radio trasmette ancora i bollettini con sopra le ore, perché il banco è tanto chiuso tanto unito che ha messo a tacere ogni luce. Ti entra nelle ossa, questa nebbia. Fa persino fatica prendere la linea e ascoltare la trasmissione in pace. Altrimenti ci sono i dischi per il mangiagiri di sommità. Ma il problema è che se metti a voce quello si tace quell’altro, e la radio serve. Perché loro hanno detto della nebbia. Perché la trasmissione prima o poi reggerà. E sarà lì lo sfaldamento della condensa, lì sarà ritorno tra le case prefabbricate, agli scantinati smangiati dal suolo radioattivo. Intanto, oggi, questo pilastro di nuvola non avanza.

Il fischio comunque viene da quelli là che lavorano. La cava non dev’essere distante. Scavano per arrivare al fondo, da dove viene il caldo. Bucaccionero da anni ma questo culo, questa destinazione ancora non si vede e continuano a dire di pazientare, continuano a dire che sarà proprio quella bocca nella terra, alla fine, a salvarci da questa fottuta nebbia. Mi calco il berretto benebene sulle orecchie. Non mi muovo e quindi non c’ho fame. Per bere lascio un po’ la lingua all’aria e come chiudo è avercene un bicchiere, di acqua, che t’inonda le gengive. Le sigarette non finiscono mai perché, appena appisolo l’occhio, mi sveglio e tre che ne ho fumate, tre che ne ritrovo. È davvero un trono grandioso, questo regno di nebbia. A volte deve essere inverno perché le palpebre aperte fanno male, bruscolini e pinzillaccheri mi si fiondando dentro e sono schegge di ghiaccio che svicolano fino al cuore. A volte deve farsi estate perché il fumo della cava occlude la nebbia, ci vedi attraverso le esplosioni, e il berretto mi vien voglia di lanciarlo alla malora in questo mare sparso e appiccicoso e invece lo ripongo rispettosamente in tasca perché la radio non ha ancora parlato e lo rigiro pieno di ciocche scalpate mentre va via la prossima sigaretta mentre il mono-occhio rosso appicciato brucia e invitte le gocce sospese attorno, awkward, comiche, maledette. Un gran deserto privo di compassione.

***

La nebbia si è infeltrita. Ispida, spessa. La radio lampeggia ma la linea fa sciopero. Persino alla cava hanno abbassato i toni. Oggi solo tiepidi smartellii e svaporate. Allora si può mettere su qualcosa. Apro lo scompartimento, soffio sulla puntina e l’intro gira burrosa, languida su tutta l’ampiezza della scala con quello sfarfallo di contrappunti notone saltellamenti che impregna le narici. È una voce che sale nel retrotesta canala dietro le orecchie risuona da dentro. Eccolo, fa PUM!, il groove, compagno delle notti al CantaBar. Una bettola schifosa rimasta su per sfiga o per miracolo durante la bonifica dei Quartieri Bassi, dove si gira a birra pisciata e comiche da due soldi. Ci passiamo di ritorno dalla cava ché rimane aperto tutta la notte, le trivelle non dormono mai, noi ci si va con quelli raccattati nell’Unità come raccatti la merda nel nero dei cunicoli, quelli sotterranei lasciati per camminare quando le strade s’addensano e dove vai non vedi, baluginano solo le torri del centro e tanto più ci sei lontano, tanto più la corrente fa su e giù, così rove rove rove mentre blizzano Levitanti armati sopra le teste per tenerci a bada e quel che resta è slavare le ore di fatica nella fuliggine quel che resta è espiare con questa benzina spremuta a cattiveria che scende e brucia e ti intrappisce le budella e scende e non si ferma e diventa parte di te. Da qualche giorno poi è emersa una biondina, stava nell’Unità interna, appressoappresso il confine. L’ho beccata una volta ai lavatoi dietro al Canta, rannicchiata sotto la cascata del cubicolo e illividata su collo e tronco. Casa mia è a un tiro di schioppo. Penso sia stato nell’ordine delle cose accoppiarsi.

Durante le notti al CantaBar la nebbia non si alza ancora così tanto. Girano voci che la mettano quelli delle torri per non farcele vedere per un po’, quanto crescono, quanto vibrano per la corrente che ci nasce. Perché la cava, da sola, non serve a niente, sono le torri a succhiarne il sudore, a trasmetterlo lungo fili e condotti e ai generatori. La chiamavano soluzione temporanea. «La cava estrae energia dal sottosuolo», per questo sale la nebbia, sempre più lunga, sempre più cupa. E quindi le torri, elektrostatik. Ma i vecchi la folano che viene invece proprio dalla dannatissima cava, che fanno strategia di classe a tenerci buoni finché quelli del centro non smammano e allora sì, le torri cadranno e il buio con loro, e di tenercelo bene a mente quando le fornaci ci ingurgiteranno per liberare il pianeta. La radio al CantaBar frizza e frizza e sulle frequenze clandestine dicono che le torri hanno disertori. Che i potenti hanno i giorni contati. E allora dài a buttare giù sbobba che presto ce ne andiamo. Poi ci sono quelli che se ne fregano, e spesso si fanno Cacciatori, e a sentir loro randellano la nebbia, e tornano, e scrivono, raccontano tra fiumi di succo buono di cantina, quello fino, svicolato per i tunnel sotto i ristoranti degli stronzi classy e donato alle Unità e si propongono capobranco per la sollevazione. La bionda dice che anche suo padre lo è stato, ma la nebbia, a lui, l’ha tirato scemo, e ad appoggiare il casco in casa sono usciti i mostri, e tra le mura ha inaugurato il bracconaggio, e quando non apposta beve, e quando non beve urla, e quando non urla sfigura la madre e se ci si mette in mezzo legna anche lei. Perché qualcosa esiste, nella nebbia. E la cava fischia, fischia, fischia.

Ma al CantaBar tutto s’illumina di neon, e questa bionda ci pigia parecchio sul karaoke e a volte scavalliamo nelle altre Unità e lì sempre sotto il palco e quando sale lei pendo dalle sue labbra e via che scendono le fermentazioni dolciastre servite al bancone e questa che gratta il microfono che sembra spellarlo aùùùùùùùùùùù le sigarette fioriscono tra indice e medio e se compare un rivolo di nebbia e la radio lancia l’allarme PFUSH, VIA! a scannare nei sottotunnel irranciditi a fare la gimcana tra gli ottozampe padella placidi loro nelle ragnatele per raggiungere gli schermi di porte e finestre con il drum ancora a mezza bocca, gli occhi che già lacrimano e l’ultima bottiglia stretta bene al petto perché, il boozbooz, la cosa migliore è ciularlo al proprietario quando sale la nebbia. Di solito la finiamo in cantina da me finché scoltra. Lei ha questo sorriso spontaneo, incomplicato. Guardiamo vecchi film per trangugiare shottini e ci addormentiamo su materassi srotolati. Foot-on, facciamo saltare sulla lingua parole da ventunesimo secolo, futon 布団 e attorno rivolvono pettegolezzi, confessioni e sbiaditi ricordi di pubertà. Ah, l’età del CantaBar. Alzata la nebbia, la bionda scompare.

Poi la ribecco ogni sera dove il pubblico è fucking wild e via che quella benzinamelassa non è sembrata così buona maimai. Di giorno in cava siamo divise ma la notte sogniamo una cosa semplice come il caffè, quello buono, che pensiamo scenda dai muri nelle case pretenziose e zioporco non sa di sterco pressato. Ah un giorno ci andremo. Un giorno scaleremo quelle torri e vivremo come loro. Intanto ci godiamo il materasso in cantina, ché non l’ho più tirato su e quindi è diventato un futdàun però questa cosa che appena la nebbia dilegua, pure lei s’invola, man that’s shit. Dice che lo fa per la madre. Che sola con il padre farebbe una brutta fine. E io anche senza lei torno al Canta ogni sera, ma quando partono i dischi rotti che giranogiranosaltanogiranoancora fanno sanguinare le tempie. Mi chiudo nel cesso e carico ganci finché il muro non si incrina, finché la polvere non occlude ogni atomo d’ossigeno. Se respiro abbastanza, forse stavolta funzionerà, e mi scioglierò anch’io al debole sole doponebbia.

Quando lei torna fuori è toujours festa oscena, occupiamo il CantaBar e ci bruciamo l’ugola con tutta la merda liquida che possiamo digerire. Pare che la nebbia cominci a farsi vedere meno. I vecchi sibili dell’Unità, il grattare maleducato della cava, tutto è ovattato dai nostri rumori, da quel sorriso brillante e ingenuo, anche la radio tace su intrighi e sollevazioni, e non c’è traccia di nero sulla sua pelle anche dopo una giornata di sudore, la stringo ed è gioia ed è lavarsi, sciacquarsi degli odori della cava, delle suppellettili di vita che siamo, delle forme squadrate e polverose delle catapecchie prefabbricate, delle luci del centro, del fofó elettrico che scappella gli angoli delle Unità. La festa prosegue fino alle sirene dell’alba. Il sole, timido, fora il nero pesto dei vicoli e lei, prima di darmi l’addio, mi stampa una slinguata sulla bocca.

La nebbia si è rinfittita, e la cava, stasera, fa la prepotente. Arranco per le strettoie grigie per arrivare al riparo il prima possibile. Il Canta è sprangato. Tuono alla porta e la mia bionda appare in uno spiraglio, si preme il taglio dell’indice sulle labbra. Fa cenno di entrare.

«Ma che fai? Che cazzo è? Dove sono tutti?»

«Shht! C’è stato un cambio di situazione.»

«Ma che cazzo dici. Che situazione.»

«La situazione. È passato uno dalle torri. Ha detto zittoinbocca e che stasera si aprirà un varco. Entrare là dentro. Levare il culo da qui con un Levitante.»

«Ripeto, che cazzo dici.»

«Mh-mh. È così. E noi saremo in prima fila.»

Detto, fatto. Un’ora dopo siamo oltre i tunnel, scaliamo verso i condotti di drenaggio alla base delle torri. Si sentono delle ventole. Il nero degli abiti da Unità ci fonde con il colore dell’aria di scarico. Scavallato verso il drenaggio sarà fatta. Arriviamo al punto indicato dal delatore. La grata da cui sfiati marci escono. Mi avvicino al metallo. Oltre la barriera, puzzo acre e il dolce massaggio dell’acqua sul fondo dei tubi. Mi giro verso la compagna. Mi sorride sorniona, scatta su e giù con il mento. Sulla grata c’è una fotocellula. Il tizio ha detto che sarebbe stata disattivata. Sto ancora studiando le sbarre quando UN TONFO e mi spingono contro la grata disattivata un cazzo, sbottano luci rosse e un urlo meccanico giragiragira, mi volto come une belva ma lei non c’è più non ci sono passi non ci sono odori e Loro dalle torri ci metteranno uno zero a imbrigliarmi, ripercorro il tunnel su e giù almeno per trovarla, almeno per spezzarla prima che lo facciano altri e l’allarme fora rifora i timpani sento i primi passi pesanti dietro di me, questo cunicolo ripete un’eco di condanna ed è lì a un palmo dal precipizio che lo vedo, papà ha sbattuto la porta e ha chiuso mamma nella camera e vuole fare i conti con me e alla cava il giorno dopo mi spingono a terra per farmi crescere i lividi, vedo la nebbia vuota, e fonda, e vedo le sale deserte delle sere al CantaBar, solo due stonati sul palco e ciondoloni pregni d’alcol a urlare oscenità e palparmi nel bagno, e chi è dei vecchi che diceva che i miasmi-scoria della cava provocano allucinazioni? Poi ricompare la sua testa gialla, fa per tendermi la mano ma CRACK!!! e sono a pezzie la prima cosa che ricordo è trovarmi in mezzo alla nebbia, e la radio sgnicca sgnacca fa fatica a prendere in questo fofó, altrimenti l’avrei sentito, dell’emergenza, di questa nebbia insuperabile, e magari mi avrebbero anche detto quando finalmente le torri sarebbero crollate…

Elisa nasce a Reggio Emilia e vive a Milano. Si laurea prima in Lingue e Letterature Straniere all’Università Cattolica, poi in Film Studies alla University of Edinburgh (Scozia). Elisa fa la copywriter e collabora con la casa editrice Il Saggiatore per il progetto di rivista online The Italian Review. Nel 2021, Elisa pubblica il suo primo romanzo, Autoritratto con famiglia, per bookabook. I lavori di Elisa sono apparsi, tra gli altri, su Neutopia, Tropismi, Altri Animali e Rivista Blam.

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