LA MORTE IN BABBUCCE di Alessandro Pestarino
Gli veniva da ridere. Era più forte di lui. In certi momenti il corpo fa come vuole, è un ribelle. Sconfiggendo il timore della mobilia turrita ed eburnea e il cordoglio solforoso del parentado, adesso non aveva più paura e fremeva. Tanto era inutile opporsi, e la colpa era del prete.
In chiesa, avvolto dal riflesso scarlatto del rosone, ad un tratto aveva detto: «Ecco di cosa ci ammonisce il Signore: dobbiamo vegliare fratelli, perché la Morte arriva inaspettata come un ladro nella notte!»
Quelle parole avevano sbiancato tutte le immagini di un tempio che sudava sangue riaccendendo una vecchia fantasia. Subito era iniziato un formicolio insistente dietro le guance che scalciava per deflagrare in una risata. L’aveva trattenuta più che poteva, ma ora premeva così tanto da pizzicargli tutta la faccia. Gli occhi schizzati di rosso contenevano a fatica lacrime insolitamente saline che peggioravano la situazione. Notandolo, più di un parente gli aveva rivolto un sorriso amaro, un tocco rapido sulla spalla, un’arruffata imbarazzata ai capelli.
Stava varcando il limite. Strisciando contro il muro sbucò in corridoio filando spedito nella vecchia cameretta di mamma. Scoppiò a ridere appena la porta si chiuse alle sue spalle. Rideva piegato in due, tenendosi la pancia come nelle vecchie comiche; rideva senza essere felice cacciando dalla bocca chiodi avvelenati. Nonostante il dolore si rese conto di stare facendo un gran baccano, e trovò la soluzione in un grosso cuscino fiorato orlato di pizzo. Vi cacciò la testa contro mordendone e assaporandone la stoffa. Venne invaso da un puzzo di naftalina che, misto alle risate, lo portarono alle soglie del vomito. Ma non riuscì a smettere. Aveva ancora tanto da sputare fuori; il corpo vibrava, e non si calmò finché la bava in bocca non assunse un sinistro aroma acidulo. Lanciò il cuscino dalla parte opposta della stanza e si fermò facendo lunghi respiri. Non poteva vomitare ora, sul pavimento: gli avrebbero dato una sgridata memorabile!
Calmandosi si accorse che aveva macchiato il cuscino con un grande e informe alone proprio al centro. Lo raccolse rimettendolo a posto girato per l’altro verso. La cameretta era buia e molto più piccola della sua. Tutti quegli scaffali colmi di scatoloni e le ante dell’armadio da cui pendevano chiavi con nappine dorate lo mettevano a disagio. Gli venne l’istinto di tirare su la tapparella, ma non lo fece perché il rumore avrebbe attirato troppo l’attenzione e lui aveva bisogno di stare solo.
Il tempo era poco. A undici anni scarseggia quasi tutto. E lui aveva un grande dilemma che le risate avevano alleggerito ma non cancellato: essere triste per la morte del nonno o riderne perché se lo immaginava rapito dall’omino della Diavolina?
Che la Morte potesse avere le fattezze di quel buffo spiritello stampigliato sulla scatola dell’accendifuoco, era una fantasia che lo aveva colto fin dalla prima volta in cui aveva visto le confezioni sugli scaffali del supermercato, però non era mai riuscito a darle una connotazione negativa. Proprio perché quella figurina smilza e nervosetta, col visetto vispo e rubino, vestita di una calzamaglia integrale corvina e babbucce adunche che fugge sui tetti, gli sembrava uno scherzo sciocco e infantile, comunque nulla di cui preoccuparsi. E poi, non aveva mai dovuto confrontarsi con essa, se non nelle piatte immagini di film e videogame. Immaginava che prima o poi gli sarebbe arrivata vicino però in un tempo lontano e di cui avrebbe pensato al momento, sicuramente da adulto.
Invece, tre giorni prima era mancato il nonno senza che nessuno se lo fosse aspettato. Era successo di notte con una dinamica che soddisfaceva perfettamente la versione raccontata da Don Clelio poco più di un’ora prima.
E lui ora era confuso e lacerato perché non si può essere tristi per qualcosa commesso da un tipetto che se ne va in giro con delle scarpe così sceme. Eppure gli adulti erano disperati: piangevano, nessuno escluso. Di là ondeggiavano tutti flosci come impiccati. Presto sarebbe dovuto tornare assieme a loro sopprimendo l’idea che si trattasse di uno scherzetto. Ci sarebbe riuscito?
Iniziò a camminare avanti e indietro con passi felpati domandandosi cosa sapesse lui del dolore, della gioia. Non sapeva nulla, però sentiva qualcosa. Sono cose che finiscono appena le afferriamo o ci afferrano, non ha importanza. La sensazione cresceva man mano che infilava gli stessi passi avanti e indietro facendosi sempre più gobbo. L’amore, la tristezza… appena diventano reali sono grezzi e perdono la loro spiritualità spaventosa; iniziano e finiscono. A quell’età non poteva certo capire questi ragionamenti, ma lo stuzzicava una vaga intuizione. Immaginava che l’amore di sua madre non era un semplice abbraccio, un bacio, il dono di un giocattolo… eppure quelle manifestazioni erano le uniche che poteva toccare, perciò le sole reali. E non duravano se non nel ristretto spazio del loro compiersi.
Stesso discorso per il dolore, quel dolore. Il nonno era morto, e la cosa era fatta e finita, uguale uguale a quando papà ti concede di dormire fuori da un amico, solo che qui non salti dalla gioia. Perciò essere tristi, stare male come tutti era davvero difficile. E poi, ci si era messo pure quello sciocco d’un prete! Perché tirare fuori un’immagine così goffa e ridicola della Morte? Aveva solo complicato le cose.
Aumentò il passo e la testa iniziò a girargli. Magari ricordare qualcosa del nonno lo avrebbe aiutato a essere convenzionalmente triste. Di lui ricordava che gli tirava su il cappuccio appena infilava la felpa. E poi uno sguardo così acceso, fin troppo per quegli occhi minuti, da fargli spavento negli scuri e soporiferi pomeriggi di novembre. Ah, capitava pure che lo beccasse a spiarlo mentre faceva i compiti e lui sgattaiolava subito via.
Di colpo sentì dei singhiozzi, una porta aperta e chiusa, lo scroscio dell’acqua. Qualcuno era in bagno, la stanza attigua. Si bloccò terrorizzato. Allargò le braccia pronto a scattare. Il flusso del rubinetto continuava tagliato dalle mani che ci passavano sotto. Di certo era sua sorella. Quella grande. La odiava perché piangeva da tre giorni e tutti si facevano in quattro per consolarla, e aveva sentito conversazioni in cui mamma e papà erano preoccupati per il suo dolore. Quella stronza si era saltata pure l’interrogazione ed era stata due giorni con le amiche per distrarsi. Invece, lui a scuola c’era andato eccome!
Nel corridoio arrivò qualcun altro. Entrò in bagno e sicuramente ci fu un abbraccio. Il rubinetto venne chiuso e subito dopo la porta. Era di nuovo solo. Presto sarebbero venuti a prendere pure lui perciò in qualche modo le lacrime doveva tirarle fuori. Chissà dove stava adesso il nonno. Non poteva che essere in groppa a quel diavoletto che saltava di palazzo in palazzo. Ecco, così non andava assolutamente bene! Il chiacchiereccio dell’altra stanza lo aggredì mettendolo alle strette. Strizzò i muscoli del viso trattenendo il respiro. Ripeté a labbra chiuse: «Questo è uno scherzo brutto, questo è uno scherzo brutto, questo è uno scherzo brutto, questo è uno scherzo brutto…» Le parole gli pulsavano nelle guance. E gli scherzi, pure quelli di cattivo gusto, finiscono prima o poi, perciò dovrebbe essere facile piangere per un tempo limitato.
Lo sforzo gli fece uscire un risolino squittente che gli bruciò prima la gola e poi il naso.
Quando la zia aprì la porta interpretò la sua risata contorta come una smorfia di dolore e il volto rigato dalle lacrime come il segno di una disperazione scarnificante. Non disse nulla e si inginocchiò davanti a lui abbracciandolo e facendogli soffocare il divertimento contro la spalla destra.
Alessandro Pestarino (1994) è piemontese. Redattore di Eisordi Rivista. Nel 2017 è stato finalista al concorso di sceneggiature Rive Gauche di Firenze. Nel 2018 ha pubblicato la raccolta di racconti "Qualcosa è Rimasto" per Impressioni Grafiche. Ha scritto sceneggiature e diretto alcuni cortometraggi. È stato nella cinquina finalista della sezione racconti al TOHorror 2021. Ha pubblicato su Blam, La Nuova Carne, L’Incendiario, Salmace, Fiat Lux, Malgrado le Mosche, Neutopia, Aratea.