OLTRE by Sara Marzana
La versione originale del racconto è stata pubblicata su: https://inparentheses.art/2021/06/06/over-by-s-marzana/
Alle nove del mattino, mentre camminava verso la metropolitana, Mosca era buia come il bosco delle favole, quelle in cui l’eroina sta per essere in pericolo e qualcuno deve correre a salvarla. Era il mese più cupo dell’anno, dicembre. Le strade pullulavano di russi diligenti e instancabili, speranzosi di riuscire a sopportare l’ennesimo giorno senza luce.
I diplomi di laurea, i finti pass per le conferenze, il quadro finanziario e tutti gli altri documenti del suo alias erano custoditi in una cartellina nera. Le avevano preparato un curriculum notevole, faceva persino riferimento a un premio come miglior coreografa, ottenuto al terzo anno della sua laurea in Danza Classica.
Durante training, che si era concluso il mese prima, aveva lavorato su ogni tratto che avrebbe potuto renderla vulnerabile, correggendo ogni manierismo che avrebbe potuto esporla per chi era davvero. Si era specializzata in tecniche di difesa e strategie investigative, aveva imparato il russo e il cinese, mentre si sottoponeva a una marea di poligrafi dove impersonava chiunque tranne se stessa.
Quella mattina, ascoltando Čajkovskij, ripassò ogni dettaglio del suo passato, si passò il rasoio sulle gambe e si preparò a iniziare il suo primo giorno di lavoro sul campo. Quando aprì il pesantissimo portone di legno del Bolshoi Ballet Academy, una raffica di vento gelido entrò nel corridoio — e con esso — il nuovo volto della Russian American Foundation. Due coreografe apparentemente graziose sopra i quaranta le fecero fare un giro dell’accademia, muovendosi tra i corridoi della scuola come soldati in un campo di danza.
“Questo è il tuo ufficio,” disse Karina in inglese.
Lei omise che capiva perfettamente la sua lingua. “Fantastico, grazie. Mi metterei subito al lavoro, se per voi non è un problema.”
“Non ce n’è bisogno. Prima dobbiamo formarti.”
“Formarmi?”
“Sì.”
“Sono la nuova Direttrice Coordinativa.”
“Oltreoceano. Qui facciamo le cose diversamente.”
Lei non rispose per un minuto.
“Non è per questo che sono qui?”
“Nessuno inizia a lavorare qui senza formazione. Spero non sia un problema,” disse Karina.
Nei giorni seguenti prese il tè con loro, frequentò le lezioni di danza, e partecipò alle riunioni con il loro direttore organizzativo. Non erano ciò che si definisce un’allegra combriccola, ma il modo in cui si pestavano i piedi a vicenda — quella sorta di tip-tap gerarchico che ognuno di loro sapeva benissimo ballare — era essenziale a capire chi avesse più da perdere in quell’istituzione.
Una volta rientrata nel suo appartamento, il più cupo di tutta Mosca, accendeva il portatile e registrava tutto ciò che aveva notato durante il giorno. Usava una cartella di bozze di un’indirizzo mail che le avevano fornito prima di partire, una forma di comunicazione che non lasciava alcuna traccia, poiché nessuna mail veniva di fatto spedita. Quando le veniva fame, metteva una lattina di zuppa di pomodoro Campbell’s nel microonde, o, se si sentiva di esagerare, scaldava un piatto di noodles.
Prima di andare a letto, leggeva almeno venti pagine di un libro che raccontava la storia del Bolshoi. Non era particolarmente utile al suo lavoro — raccogliere informazioni su una possibile truffa ai danni della Fondazione — tuttavia scoprire che il teatro era stato un orfanotrofio, fatto costruire da Caterina II affinché i bambini imparassero a danzare, le permise di entrare in contatto con lo spirito del paese in cui stava vivendo in modo più radicale e istintivo.
Il giorno in cui avrebbe dovuto finalmente iniziare a lavorare, arrivò soltanto qualche minuto in anticipo. Evitò di fare colazione con Karina e Manya, gli occhi e le orecchie della scuola. Passando davanti alla reception, aprì la porta del suo ufficio con la fiera determinazione di chi, frustrato dalla natura effimera e implacabile del tempo, non intendeva sprecarne nemmeno un altro po’.
“Buong… scusi, lei chi è?” disse, guardando l’uomo in piedi davanti alla sua scrivania.
“Piacere di conoscerla, sig.na Shor. Приятно познакомиться. Sono Ivan Novikov, suo collaboratore.”
Lei sostenne il suo sguardo.
“Piacere di conoscerla,” disse.
“Il piacere è mio.”
Non sapeva come, ma erano riusciti a incastrare un’altra scrivania, un’altra sedia e un altro appendiabiti in quell’angolino. Una volta seduti alle loro scrivanie, iniziarono a digitare come matti sulla tastiera, facendo finta di non essere plasmati dalle dinamiche di potere che avevano appena sancito stringendosi la mano. Ogni volta che il telefono suonava, lui rispondeva al primo squillo, con un tono severo e gentile che la disturbava quanto un toro è disturbato dal mantello di un torero, che sia rosso, bianco, o verde.
“Non prenderla sul personale,” disse lui, quando furono fuori dall’ufficio. “È una procedura standard.”
“Immagino abbiate uno standard piuttosto basso.”
“A domani,” disse lui, compiaciuto e scettico allo stesso tempo.
Quella sera, camminando verso casa, entrò in un negozio di liquori e comprò una bottiglia di vodka. Era Capodanno. Non stava lavorando, ma si sentì comunque in colpa. L’avrebbe bevuta a cena, gelida, come fanno i russi. Aprì una busta di insalata fresca e la lavò nel lavello. La asciugò, tagliò qualche pomodoro e mise tutto in una scodella di vetro.
Il primo sorso di vodka la disorientò — fu come ingoiare verità pura. L’alcol le arrivò alla gola così velocemente, che si riempì subito un altro bicchiere. Ne voleva ancora. Ecco il problema delle persone che non si concedono mai nulla, prima o poi finiscono per volere tutto.
Nelle settimane seguenti, lavorò fianco a fianco a Ivan. Non si sfioravano mai, nemmeno per sbaglio. Neanche quando si alzavano allo stesso momento, per lasciare l’ufficio in pausa pranzo. Era come se il loro io fosse circondato da una linea invalicabile che nessuno dei due poteva varcare. A lei non scappava nemmeno un sorriso, fino a che non si rese conto che non sarebbe mai riuscita a ottenere tutte le informazioni di cui aveva bisogno se non si fosse avvicinata a lui almeno un pochino.
Una sera lo vide camminare verso la macchina. Si fermò davanti al portone di legno dell’accademia. Lui la salutò, chiamandola per nome.
Fingendosi distratta, lo salutò con la mano.
“Andiamo a cena?” le disse lui, avvicinandosi.
“Sì,” disse lei, indietreggiando. “Posso passare prima da casa?”
“Certo. Lo faccio anch’io.”
“Dove ci incontriamo?”
“Café Pushkin, 8.30?”
“Wow.”
“Conosco lo chef. Passo a prenderti io?”
“Prendo la metro. Grazie.”
“Ci vediamo lì allora. Non dimenticarti l’ombrello, dev’essere resistente. Tra poco piove e gli ombrelli da poco fanno la stessa fine dei meteoriti qui.”
Da quando era giovane, più le importava di essere bella per qualcuno, meno sforzi faceva in quella direzione. Il solo pensiero che chi avrebbe voluto impressionare potesse capire le sue intenzioni, o si rendesse conto dei suoi sforzi in quella direzione, le era intollerabile. Perciò faceva l’esatto opposto, indossava vestiti che avrebbe potuto indossare per, dire, una conferenza sui composti chimici dell’uranio. Con il tempo, era diventato il suo modus operandi, nell’improbabile eventualità di un appuntamento romantico. Prima di uscire, intinse l’indice in una boccetta di profumo e si picchiettò la nuca, il décolleté, e i polsi.
Mentre pasteggiavano caviale di luccio e patate al cartoccio, lui non le chiese niente della sua vita, del suo lavoro, della città in cui viveva prima di trasferirsi a Mosca. Può darsi avesse ipotizzato fosse NY, è lì che si trova la sede generale della Fondazione, ma non mostrò nessun desiderio di scoprirlo. Questo si aggiunse alla lista di motivi per cui si sentiva attratta da lui.
Il suo lavoro stava procedendo molto più velocemente di quanto volesse ammettere a se stessa. Sarebbe stata pronta a partire entro la fine del mese. Il momento di inventarsi un’emergenza famigliare e lasciare il paese si stava avvicinando. Forse era impensabile sentire un discreto livello di soddisfazione al suo primo incarico (si sa come sono le prime volte), ma non era da lei temere il fallimento. Capitava che si dimenticasse persino di dover tornare, il che era piuttosto insolito. Non riusciva a capire quel che stava accadendo, ma sapeva che l’unica cosa che l’avrebbe salvata era l’azione. Iniziava a diffidare dell’effetto del pensiero su di lei; era come un impasse labirintico che le intorpidiva i sensi ancora prima che se ne rendesse conto.
L’azione, era sempre stata l’azione, a portarla avanti.
In un nebuloso venerdì mattina, chiese a Ivan: “Che piani hai per il weekend?”
“Che domanda americana.”
“Trovi?”
“Perché siete così ossessionati dai piani?”
“Non mi hai ancora risposto.”
“Io non faccio piani.”
“Cucini?”
“Quello sì.”
Lei sorrise.
“Posso cucinare per te, se vuoi.”
“Per quest’americana?”
“Domani, 20.30?”
“Non ho il tuo indirizzo.”
Le diede un post-it con il suo indirizzo scribacchiato sopra, sfiorandole la mano.
Lei lo cercò subito su Google.
Prima di lasciare il suo appartamento quella sera, nascose tutto ciò che aveva di importante in cassaforte. Non gli avrebbe permesso di accompagnarla a casa, ma se avesse insistito, non l’avrebbe fatto salire. Per motivarsi, nascose la pistola sotto il cuscino, come le donne che non si depilano per non concedersi al primo appuntamento.
La strada era ghiacciata, scivolosa e inquietante sotto i suoi stivali di pelle nera. Tra le mille ragioni per cui non avrebbe dovuto andare a casa di Ivan quella sera, una le batteva tutte — lo desiderava.
Il suo appartamento era immacolato. Nulla sembrava fuori dall’ordinario. Tutto aveva l’aria di essere al suo posto. In ogni dettaglio, ma ancor più nel complesso, c’era un senso di realtà forzata; non era impersonale o asettico — soltanto irreale.
Quando entrò, lui le prese il cappotto, cautamente, mentre lei ascoltava il rumore di ogni suo passo sul parquet. Il tavolo della sala era coperto da una tovaglia giallo canarino. Su entrambi i lati c’erano piatti di porcellana e bottiglie di vodka. Tempo fa, aveva letto che i russi non amano le cose vecchie — i vecchi palazzi, ad esempio. Se possono, li distruggono e ne costruiscono subito di nuovi, con porte e finestre prefabbricate. Nuovo è sinonimo di denaro, vecchio di decadenza. Ma lui non assomigliava a un russo qualunque, non assomigliava a una persona qualunque; era diverso da tutto ciò che lei avesse letto, visto o sentito prima.
“Di solito non bevo,” disse lui, notando il suo sguardo fisso sulle bottiglie di vodka. “Ma di solito non ho nemmeno compagnia.”
Quella è la sua camera? Si chiese lei, dando un’occhiata alla porta in fondo al corridoio.
“Spero ti piaccia il Pelmeni,” disse lui.
“Cosa?”
“Non sapevo quale carne ti piacesse. Il ripieno è un misto di agnello, manzo e maiale.”
“Mai assaggiato.”
“Davvero?”
“Il cibo è l’ultima cosa su cui mentirei.”
“Da quanto sei qui?”
“Dove hai imparato a parlare inglese così bene?”
“Ah, qua e là.”
Con il palmo della mano rivolto verso il tavolo, la invitò a sedersi.
“Un po’ di musica?” disse lei.
“Magari dopo.”
“Oh.”
“Schumann va bene?”
“Perfetto.”
Era in piedi davanti alla libreria di marmo, fissava la prima edizione de I demoni di Dostoevskij, quando lui la cinse da dietro.
Due anni. Erano passati due anni dall’ultima volta che un uomo l’aveva toccata — dentro, fuori, dappertutto. Essere toccata non la disturbava, ma credeva più alla distanza che alla vicinanza. Il suo rapporto con l’intimità era come un ‘balance’ nel linguaggio del poker. Giocava più mani allo stesso modo, rendendo quasi impossibile al suo avversario capire quali carte avesse in mano.
Ogni volta che sentiva qualcuno avvicinarsi, tentare un qualsiasi approccio nei suoi confronti, si premeva di dissuaderlo, sviarlo, sottrarglisi. Era stata addestrata a farlo, ma non per questo le veniva così bene. Era un seme, che lei si era presa il tempo di nutrire e coltivare. Alla fine, era diventato parte di lei — come rispondere a una domanda con un’altra domanda, memorizzare il percorso verso l’uscita di emergenza più vicina, e, mai e poi mai, dare l’impressione di essere colta di sorpresa.
“Dov’è camera tua?” chiese lei.
Lui le fece strada. Lei lo seguì.
I muri della stanza erano dipinti di rosso e il soffitto di nero. Le persiane erano abbassate; ma la finestra, piuttosto grande, era aperta. Lui la chiuse subito, poi la spinse sul letto.
Lei lo fissò, scattò in piedi, alzò le sopracciglia, e lo spinse sul letto.
“Sei forte,” disse lui.
“Non ne hai idea,” disse lei.
Prese un taxi, si fece una doccia e andò a dormire. Quando si svegliò, come previsto, lui fece capolino nei suoi pensieri. Per questo si era prefissata di pulire l’intero appartamento, prima di digitare: “In arrivo roba scottante,” in un’altra bozza.
Stava nevicando quando si svegliò, lunedì mattina. Giovani bellissime donne passeggiavano con le loro minigonne nere e i collant velati sulla strada innevata. Da quando era arrivata in Russia, le donne russe le erano sembrate la più sottovalutata forma di resilienza del Paese. Con il loro stacco di gamba, i dolcevita chiari, la forza con cui affrontavano l’asprezza dell’ambiente circostante, la fiera padronanza con cui si attenevano a regole che non avevano mai concordato — erano miracolose.
Quando aprì la porta del suo ufficio, Ivan non c’era.
Mezz’ora dopo, Karina e Manya entrarono, chiedendole di uscire.
“Qualcuno vuole parlarti.”
“Chi?”
“Qui andiamo avanti noi.”
“Torno tra un minuto.”
Quando chiuse la porta dietro di sé, vide due uomini che la stavano aspettando.
“Dina Shor?”
“Sì.”
“Può mostrarci il suo passaporto, per favore?”
La squadrarono per un attimo.
“È in spogliatoio, nel mio armadietto.”
“L’accompagniamo.”
Dopo averlo guardato attentamente, le fecero qualche domanda.
Per l’ultima, non si era preparata nessuna risposta.
“Perché dovrei girare con una pistola?”
“Resteremo in contatto,” disse uno dei due. Poi le diedero entrambi le spalle e se ne andarono.
Quel pomeriggio tornò a casa presto. Setacciò l’appartamento per tracce di cimici nascoste, ma non ne trovò. Sedendosi al tavolo della cucina, si chiese se fosse meglio raccontare tutto al suo capo o lasciare subito il Paese. Era quasi certamente sotto sorveglianza. Doveva soltanto decidere se fosse meglio rischiare la sua vita per il lavoro, o viceversa.
Quando sollevò il tappo del dentifricio per lavarsi i denti, un minuscolo pezzo di carta cadde a terra. Lo aprì e vide che sopra c’era una piccolissima scritta. Prima di leggere, guardò a destra, a sinistra, e dietro di sé. Come se qualcuno avesse potuto saltar fuori dalla vasca, o entrare improvvisamente dalla finestra. Non mi devo comportare come se sapessi di essere osservata, pensò.
Sul suo visto non c’era nessuna restrizione quando passò la sicurezza aeroportuale. Forse non è finita, si disse salendo sull’aereo. Aveva pieghettato a fisarmonica il biglietto, ponendone l’estremità sopra la cima del getto d’acqua del gabinetto, prima di dargli fuoco. Non aveva bisogno di tenerlo per ricordare — “Mi dispiace” — le sembrò l’unica cosa vera che le avesse mai detto.
Sara si laurea in Lettere a Torino e in Letteratura presso l’Università di Essex, UK. Scrive, insegna inglese e prova a volare sul trapezio. I suoi racconti e saggi sono apparsi o appariranno prossimamente su Storgy Magazine, In Parentheses, Scribble, Fauxmoir, Tina, the Durham University Postgraduate English Journal e Exchanges: The Interdisciplinary Research Journal. È Prose Editor per HASH Journal e Fiction Reader per il Maine Review. https://absurdlymeaningful.squarespace.com/.