IL SECONDO AVVENTO by Domenico Santoro

Ero in auto coi miei genitori. Andavamo a vedere la casa nuova. Non c’era niente che non andasse con quella vecchia, ma era troppo piccola per noi. Mamma era incinta di una sorellina.

Ci fermammo al distributore. Dal cielo, scese una pioggia obliqua di raggi laser bianchi, come trattini.

I miei genitori non potevano vederli, mentre a me capitavano di continuo quelle visioni. Due settimane prima, un grande UFO grigio era apparso nel mezzo del cielo diurno, estivo, sotto lo sguardo ignaro delle persone in spiaggia. Altre volte avevo ricevuto comunicazioni via mail, scritte in linguaggio sconosciuto agli esseri umani. Ora, raggi laser bianchi, dal cielo.

La casa nuova era in collina. Salimmo lungo la strada, mentre i raggi continuavano a cadere. Era in atto un’invasione ma, per qualche motivo, solo io potevo accorgermene. Qualcosa di graduale, sistematico.

La famiglia della casa nuova ci accolse. Anche loro erano marito e moglie, con una ragazza della mia età.

«Mi chiamo Serena» disse lei, stringendomi la mano. Snella, lunghi capelli biondi, carnagione chiara. Indossava un vestitino blu notte, con pois bianchi. «Vieni, ti faccio vedere la mia stanza.»

Andammo al piano di sopra.

«Presto sarà la tua» disse.

«Non so se prenderemo questa casa… »

«Lo farete. È molto bella. Noi ci trasferiamo soltanto perché mio padre ha un nuovo lavoro. A me spiace lasciarla.»

Entrammo nella sua camera di ragazza. Era spoglia. Non aveva peluche o poster. Sembrava più una stanza d’albergo, a parte la libreria coi testi di scuola e qualcuno di letteratura e saggistica. Al centro della scrivania c’era un quadernetto.

«Scrivo poesie» disse Serena.

«Bello.»

«La maggior parte delle persone pensa che per fare poesia basti andare a capo ogni tanto. A me piace metterle in rima. Ne vuoi ascoltare una?»

«Volentieri.»

Tolsi le scarpe. Mi sedetti sul letto, a gambe incrociate. Lei rimase in piedi, vicina alla scrivania, col quadernetto in mano.

Entrarono i miei genitori con la coppia che ci ospitava.

«Questa sarebbe la stanza del ragazzo… sono contenta abbiate già fatto amicizia» disse la madre di Serena.

«È facile fare amicizia con mia figlia. È molto solare» disse il padre.

«Preferisco la Luna. Sono una poetessa» rispose Serena, sorridendo.

Ci lasciarono soli.

«Vuoi ancora ascoltare la poesia?»

«Più che mai…» dissi, continuando a vedere i raggi che cadevano dalla finestra. Chissà dove andavano, a cosa servivano. Forse stavano soggiogando le nostre menti?

Cominciò a declamare, con voce chiara e ottima pronuncia:

«Scende la pioggia obliqua e bianca

come laser da un tempo futuro.

Al fuggevole pensier nostro manca

immagine fissa del cader loro.

Scendono, sai, i bianchi raggi laser

futuro retrò, retro, da Blade Runner.

Raggi spaziali da trekkiano taser

futuribili da spada di Lord Fenner.

Raggi dal futuro allegra vista

trafiggono passato, ora inerte.

Finzione è il pensiero di morte

presente adesso futuro conquista.

Occhi miei non si stancano di loro

cadono qui, se non mi credi giuro.»

«Mi ripeti quella stanza» le chiesi. «Quella bella.»

Lei ripeté:

«Raggi dal futuro allegra vista

trafiggono passato, ora inerte.

Finzione è il pensiero di morte

presente adesso futuro conquista.»

«Me la spieghi?»

Lei rise.

«Non sta a me parlare delle mie poesie. È il lavoro dei critici.»

«Ti prego.»

«Okay, se proprio insisti. Secondo me significa che non dobbiamo trascinarci dietro il passato, perché è come avere paura della morte. Il presente è la terra di conquista del futuro. Contano le nostre azioni quotidiane, sai, come scrivere una poesia su qualcosa che ci spaventa.»

«Anche tu vedi i raggi.»

«Certo, cadono tutte le sere. Te ne sei accorto solo ora?»

A quel punto, ero perplesso.

Svuotai sul letto la mia borsettina di medicinali.

«Tu che prendi?» le chiesi.

Serena rise. Aprì il cassetto del comodino. Il contenuto era simile a quello della mia borsetta.

«Pensi che possiamo vederli solo noi?» le chiesi.

«Credo di sì.»

«Come pensi sarà il passaggio?»

«Io sono fiduciosa. Saranno ospiti gentili. Ci insegneranno molte cose che non sappiamo.»

«Mia madre è cristiana metodista. Dice che Gesù ha già insegnato tutto, ma noi non impariamo mai.»

«Forse questo è il Secondo avvento» rispose lei, senza perdere il buonumore.

Rabbrividii. Non mi sentivo pronto per il giorno del giudizio. Anche se ero giovane, avevo già messo molta polvere sotto il tappeto.

«Cosa ne pensi dei raggi? Sono buoni o cattivi?»

«Per me sono buoni. Fanno paura, ma so che avranno effetti positivi. Mi fanno venire voglia di scrivere poesie.»

«Sei brava. Me ne leggi altre?»

«Non ti dirò di no. È bello avere un pubblico. Devi sapere che noi poeti siamo molto vanitosi. Questa parla di quando andai allo zoo safari, avevo cinque anni…»

Andò avanti a declamare le sue composizioni. Erano tutte in rima, o finivano in un’assonanza, ed erano ben ritmate. Pensai che sarebbe diventata una grande poeta. Mi stavo un po’ innamorando di lei, anche se non l’avrei mai più rivista, se non forse all’atto della consegna delle chiavi di casa. Sapevo che l’avremmo comprata. Era in collina, si vedevano bene i raggi scendere, e poi c’era spazio per tutti, anche per mia sorella.

«Tua madre è incinta» disse, quando finì di leggere. Si sedette vicino a me. Mi prese una mano: ma con fare da amica. Apprezzai molto quel gesto.

«Sì.»

«Sei spaventato?»

«Un po’.»

«Forse questi raggi, questa invasione che avverti… magari è solo paura per l’arrivo del bambino.»

«Anche tu li vedi però.»

«Ci stiamo trasferendo. Anche io ho paura. Una città diversa, avere nuovi amici. Non sono mai stata molto brava in questo campo. Forse li vedo per questo.»

«Possiamo avere le stesse visioni?»

«Non so. Carl Gustav Jung parlava di “inconscio collettivo.” Magari è il vero motivo.»

«Quanti anni hai?»

«Tredici» rispose lei.

«Sei molto intelligente per la tua età.»

«Nella scuola nuova salterò una classe.»

«Questo ti spaventa?»

«Sì. Temo di essere vista come diversa.»

Mia madre, col suo pancione, si affacciò alla stanza. Notò che ci stavamo tenendo per mano. Sorrise.

«Venite di sotto, c’è il succo di frutta.»

I genitori di Serena erano simpatici. Abbronzati, allegri, dal fisico e dal fare sportivo. Erano entrambi avvocati, come mio padre. Mia madre invece faceva la casalinga. Aveva una laurea in beni culturali che non sapeva come usare.

«Com’è crescere in mezzo agli avvocati?» chiese mia madre a Serena.

«Sono molto puntigliosi» disse lei «discutono di continuo.»

Mia madre rise.

«Non ti dico ogni volta che chiedo a mio marito di portare giù la spazzatura. Comincia ad arringare manco fosse davanti a un giudice.»

«Farebbe prima a portarla giù» rispose Serena, ridendo. «È meno stancante.»

«Ecco, brava, diglielo» fece mia madre. Mio padre sorrise.

«Nostra figlia è una poetessa» disse la madre di Serena, molto orgogliosa. «Noi vorremmo che lei pubblicasse, ma si ritiene troppo giovane.»

«Ho tredici anni.»

«Sei molto intelligente per la tua età.»

«Sì, ma la mia personalità non è sviluppata a sufficienza. E poi, non ho una grande esperienza di vita.»

«La mia piccola testolina sapiente» disse il padre di Serena, carezzandole il capo.

«Anche nostro figlio è bravo a scuola» disse la mamma, come a difendermi. In realtà ero uno medio, un po’ più dotato in matematica e scienze. E poi, per via della mia malattia, ero indietro di parecchi mesi.

«Dicci una poesia» disse mia madre.

«Sì dài» la corroborò quella di Serena.

Lei sorrise. Un pubblico. Andò a prendere il suo quadernetto.

I raggi, intanto, continuavano a scendere. A un tempo li vedevo e non li vedevo, come vediamo e non vediamo la verità. Mi chiesi se avrebbe letto quella. Se qualcuno, oltre a me, l’avrebbe finalmente compresa.

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