FINZIONI E DISFUNZIONI- Sacks e Nobbs by Marta Spizzichino

Ho conosciuto Sacks bambino: introverso, nostalgico e appassionato di metalli.

Leggendo Zio Tungsteno. Ricordi di un’infanzia chimica (Adelphi 2001) mi sono imbattuta nella sua famiglia per cui ho nutrito da subito rispetto e stima: il padre e i fratelli maggiori - divenuti poi medici generici - la madre, Muriel Elsie Landau - una dei primi chirurghi donna in Inghilterra - e zio Dave, chimico che lavorava in una fabbrica di lampadine.

Nove anni dopo la pubblicazione di tale libro, primo volume della sua autobiografia, ne L’Occhio della mente (Adelphi 2010) scriverà: “A cena buona parte della conversazione riguardava inevitabilmente la medicina, ma non verteva mai soltanto sui “casi”. Certo, un paziente poteva presentarsi come un esempio di questa o di quella patologia; ma nella conversazione dei miei genitori i casi diventavano biografie, storie della vita di persone che reagivano alla malattia o a un trauma allo stress o a un evento sfortunato”.

Forse era inevitabile, come scrive poco dopo, che anche lui diventasse medico e allo stesso tempo un narratore di storie.

A posteriori questo è il motivo che mi ha ha fatto appassionare ai suoi libri ma a priori il motivo fu un altro, non minore di quelli elencati all’inizio.

Con non poco capriccio chiedevo a Sacks, neanche così velatamente, di presentarsi a me come un Primo Levi anglofono, tanto appassionato di scienza, chimica e biologia su tutte, quanto poco di lettere. Fu allora che in Zio Tungsteno rividi un po’ del Sistema periodico, non per lo stile letterario, ma per una significativa dose di nostalgia e timidezza che traspariva dalle loro rispettive autobiografie.

Come spesso mi capita mentre leggo o vedo film che ritengo significativi, ad alcuni personaggi guardo con più simpatia o empatia che ad altri.

È questo il caso di Albert Nobbs, adattamento cinematografico del racconto The Singular Life of Albert Nobbs - scritto dall’irlandese George Moore nel 1918 -.

Albert è in realtà una donna che si traveste da uomo per poter lavorare come cameriere presso l’hotel Morrison. È un personaggio complesso, solerte ed educato, vittima di violenza durante l’adolescenza, che pur di reinventarsi cambia la propria identità. Ai miei occhi è un buono, di quelli a cui la sorte ha riservato solo sciagure ma che nonostante queste va avanti come meglio può, non ponendosi troppe domande e adattandosi goffamente alle circostanze della vita.

Nobbs mi ricorda per alcuni tratti i personaggi che costellano le opere di Sacks.

Gli stratagemmi trovati per affrontare patologie invalidanti, non psicologiche ma fisiologiche in molti casi, li spinge a trovare soluzioni alternative, che li portano a convivere con la propria malattia o disfunzione.

Questo è il caso di Lilian Kallir che apre, con una lettera del 1999, il libro L’occhio della mente.

Lilian è una donna di sessantasette anni, “colta e piena di brio, con un forte accento praghese (…). È una pianista e una brillante interprete di Chopin e Mozart”.

Una sera la partitura del Concerto n.21 le diventa incomprensibile: tale evento non è che la premessa di una neuropatologia che non le permetterà di distinguere un rasoio da una penna.

Lilian scopre così di essere affetta da alessìa pura, che consiste nella perdita delle competenze cognitive che consentono la lettura di un testo scritto o uno spartito. Tale patologia sorge di solito all’improvviso, in seguito a una lesione cerebrale o gradualmente come conseguenza di una malattia neurogenerativa.

Dopo numerosi controlli emerge che nella parte posteriore del cervello, a livello della corteccia visiva, Lilian presenta una ridotta attività metabolica. È così che l’udito e altre parti della corteccia compensano le regioni degenerate, rendendo possibile l’apprendimento e la riproduzione di un brano musicale dopo un solo ascolto.

Più avanti all’alessìa si sommerà un’agnosia visiva che le renderà impossibile riconoscere le immagini in quanto tali.

“Sebbene in cucina ad esempio non riuscisse a riconoscere quasi nulla servendosi della vista, Lilian aveva organizzato l’ambiente in modo tale da ridurre al minimo gli errori, utilizzando una sorta di sistema di classificazione informale in luogo di una gnosi percettiva diretta. Gli oggetti erano categorizzati non in base al loro significato, ma per colore, dimensione e forma, posizione, contesto e associazione (…). Ogni cosa aveva un suo posto e Lilian lo aveva memorizzato”.

La funzionalità visiva di Lilian ha alti e bassi così come la sua capacità di leggere la musica, e per compensare tale disfunzionalità usa indizi sensoriali facili come i colori.

Un altro aspetto interessante delle sue abilità inaspettate sta nel riconoscere le espressioni in foto minuscole, pur incontrando problemi nel riconoscere le persone.

Guardo Lilian e Albert Nobbs con un sentimento cui non so dar nome, forse interesse, stima, compassione.

In che modo un domani la mia corteccia controbilancerebbe la perdita di funzione della parte deputata alla lettura? Farei appello, come scrive Sacks, a meccanismi del mio sistema visivo più primitivi per compensare tale mancanza?

E come reagirei se dovessi esser vittima di un trauma grande quanto quello subito da Nobbs? Sceglierei anch’io di assumere un’identità che non mi appartiene pur di nascondermi e vivere una vita tranquilla?

Le risposte a tali domande non le ho ancora trovate. Potrebbero stare nei libri di Sacks che ancora non ho letto o nei film di Rodrigo Garcìa che non ho ancora visto. Nell’attesa stilo una lista di entrambi.

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