Il Racconto del Camionista, by Chris Cleave (translated by Elena Bossi)
Non siamo affatto come voialtri. Ci tengono separati, per la vostra sicurezza. C’è un cartello blu all’entrata di ogni porto o all’autogrill in autostrada: voi prendete questa corsia e noi l’altra. Una quindicina di metri più avanti ci sono delle transenne rosse e bianche tra le due corsie, nel caso in cui vi venga voglia di cambiar bandiera all’ultimo minuto. Ma non succederà. Starete sulla destra, e noi sulla sinistra, e vi dimenticherete di noi. Nel corso della vostra vita intratterrete più conversazioni con ottimisti e assassini che camionisti.
Eppure siamo più numerosi di agricoltori, poliziotti e insegnanti messi insieme. L’età media in questo lavoro è cinquantatré anni. Siamo maschi, bianchi, e ci fa sempre male la schiena. Nella nostra categoria le probabilità di divorzio o separazione sono due volte tanto. Ma non chiediamo la vostra pietà. Leggete gli adesivi: tutto ciò che chiediamo è che i ciclisti non ci sorpassino dall’interno. Ci sono 700.000 trasportatori di merci in Gran Bretagna e facciamo la cura di panini al bacon. Siamo il 3% della forza lavoro, il 20% del pubblico nello studio televisivo di TopGear, e il 40% dei votanti per la petizione che chiede di reintrodurlo nel palinsesto. Dicono che siamo il cuore dei voti all’UKIP (1), ma non dovrebbero darlo per scontato. Come il camionista dice al politico: se non vedi i miei specchietti, allora neanch’io ti vedo.
Per quanto riguarda i clandestini, noi sappiamo quello che i mezzi di comunicazione di massa non vi dicono. Li cogliamo in flagrante intrufolandosi sul retro dei nostri articolati. Li scoviamo a gattoni dietro agli scatoloni nei nostri carichi. È probabile che conosciate le ragioni che, a livello globale, li spingono a muoversi, ma noi conosciamo il loro odore. Siamo noi che dobbiamo tirarli fuori dagli spazi sopra le assi del camion. Quando voltiamo le spalle, si nascondono negli angoli bui, come in un film horror. Fintanto che il loro paese è un incubo e il nostro un sogno, arriveranno di notte. Ma siete voi i sonnambuli.
Vi parlerò di un particolare viaggio in cui facevo a turno con un altro camionista e stavamo tornando a casa in Inghilterra passando da Calais. Se l’immigrazione è un film horror, allora Calais è la scena in cui gli zombie si ammassano. In un primo momento li noti con la coda dell’occhio, quando sei ancora a duecento chilometri di distanza. Immaginate di fermarvi a Saint-Quentin a far benzina. Li guardate storto e loro fanno finta di niente, con le mani in tasca, ma noi non siamo fessi. Gli zombie vengono dalla Somalia o dal Ruanda, non da Parigi con berretto e baguette. Anche un sinistroide imbecille sarebbe in grado di identificarli come si fa con i sospetti nel confronto all’americana.
Anche i clandestini sono in grado di identificare i sinistroidi, mentre tornano a casa da un posticino che profuma di lavanda e ha il wi-fi. Lo chiamano sempre “un posticino”. Non sarebbero così timidi neanche se si stessero riferendo alle parti intime delle proprie signore. Stanno sulla propria corsia all’autogrill, facendo il pieno fintantoché l’euro è più debole. Credono che i clandestini debbano essere liberi di entrare, ma quando dicono “entrare” non intendono nelle proprie case o tantomeno salire a bordo delle proprie auto. Sarebbe una cosa facile — non è che i doganieri controllino il baule di un auto con a bordo una famiglia — ma i liberali non la pensano così. Sono intellettualmente impavidi, piuttosto che veramente audaci.
Quindi gli zombie preferiscono strisciare verso i nostri camion. Siamo a Saint-Quentin a fare il pieno e per tutto il tempo teniamo un occhio sulla pompa e l’altro sui clandestini. Se ti distrai, sgattaiolano verso il carico e fanno le solite stupidaggini. Come se non dessimo un’occhiata al retro prima di imbarcarci sul traghetto. Come se non salissimo sul cavalletto e li trovassimo appiccicati, e gli dicessimo di andare a quel paese. Se c’è una frase che imparano in inglese, è questa. Mi dispiace per loro, per quel che può valere. Sono disperati e non sono molto svegli e lo dico perché ci sono tre modi più semplici di attraversare la Manica che viaggiare da clandestino su un veicolo pesante.
Durante questo particolare viaggio di cui vi parlo, eravamo in due a guidare, come vi dicevo, e così il mio copilota — lo chiamerò Mister Hyde perché è giallognolo e rozzo — si arrampicava sull’altro lato dell’articolato e scacciava i clandestini mentre facevo il pieno. Durante questo viaggio c’era anche un giornalista con noi. Lo chiamerò Clark Kent ma sapete il suo vero nome — è famoso per fare dure critiche sui ristoranti. E ogni sei mesi scrive di una scottante questione sociale così che la gente non cominci a pensare: aspetta un attimo, sei solo stufo di uscire a mangiare.
Suppongo che i sei mesi erano scoccati sul suo tachigrafo: eccolo qui, seduto dritto nella mia cabina, rivolgendosi a noi senza pronunciare l’h per farci sentire a casa. Il capo aveva detto di trattarlo bene. Mi aveva dato cinquecento banconote in più, con l’avvertimento che le avrebbe scalate dal mio stipendio se il giornalista famoso non avesse passato una bella giornata. Le banconote erano ancora in una busta, custodita sotto il mio sedile.
Una volta fatto il pieno, montai in cabina. Clark Kent aveva installato una webcam sul cruscotto perché, a quanto pare, voleva filmare tutto il viaggio. Mister Hyde non voleva essere inquadrato, quindi la webcam era puntata solo su di me e Clark. Stava sul cruscotto come una sorta di Big Brother, immobile e libertino.
«A cosa servono questi pulsanti?» chiese Clark. «C’è un allarme o roba del genere?»
«Quelli regolano la temperatura sul retro. Quello accende la radio.»
«Ah, ti piace ascoltare musica?»
Mi chiesi se stesse pensando che altro ascoltassimo — i discorsi di Enoch Powell (2) — ma la videocamera era accesa, quindi mi limitai a dire: «Sì, qualsiasi cosa ci sia in radio.»
«Ti dispiace se scelgo io?»
«Prego, fai pure.»
«Sono anni che non la uso» disse Clark, premendo i pulsanti. (A dire il vero, non so a cosa si riferisse. La testa, forse.)
Si sintonizzò con Autoroute FM, che propone brutte canzoni francesi e pensava che fosse molto buffo. Ci facemmo due risate. Era buffissimo che all’estero ci fossero stazioni radio che proponessero musica degli anni sessanta, settanta e ottanta. Proseguimmo per Calais.
«Sei di poche parole» disse Clark a Mister Hyde.
Ero stato io a dirgli di non fiatare, perché sapevo come sarebbe andata a finire.
«È stanco» dissi. «Ha guidato finché ti siam venuti a prendere a Reims.»
«Fate a turni alla guida, giusto?»
«No» volevo dire. «Pigliamo anfetamine e ci trastulliamo per rimanere svegli.»
Invece dissi: «Sì, la legge europea prevede quattro ore e mezza a testa, poi dobbiamo fare cambio. Abbiamo una carta digitale che tiene il conto delle ore.»
«Dev’essere faticoso.»
«Non è peggio del giornalismo, immagino. Hai tante scadenze, no?»
«Non me ne parlare. Prima di fare questo viaggio, ho dovuto recensire un ristorante stellato a Maidstone. È stata proprio una pagliacciata, e poi ho dovuto scrivere l’articolo sul traghetto. Non riuscivo a capire se ero nero dalla rabbia o avevo il mal di mare.»
«In ogni caso» dissi, «farei cambio con te.»
«Dici così, ma c’è un limite al numero di menù che una persona può leggere prima di domandarsi se questo lavoro sia veramente il piatto principale della sua vita.»
Mi chiesi se parlava in questo modo anche quando le videocamere erano spente. Mi balenò per la testa come sarebbe essere sposato con lui. Ero già esausto, e avevamo appena iniziato a conoscerci.
Giungemmo allo svincolo per Arras, dove la minaccia zombie iniziava a diventare evidente. C’era un gruppetto che cercava di passare inosservato sulla rampa, pelle e ossa, con indosso un giaccone di nylon.
«Madonna» disse Clark. «Dicevi sul serio.»
«Non ci crede nessuno finché non lo vedono con i propri occhi. È una piaga.»
Clark si rivolse alla webcam. «Vedo una dozzina, o due, di uomini di colore che bazzicano all’uscita dell’autogrill.»
«Vuoi dire tre o quattro dozzine» dissi. «Ce ne sono ancora di più dietro ai bagni.»
«Simpatizzi con loro?»
«Non possiamo permettercelo, non ti pare? Siamo noi ad andarci di mezzo quando uno di loro si nasconde sul camion. Sono ottomila euro di multa. Due infrazioni e ti ritirano la patente.»
«In ogni caso, sono esseri umani. Non provi compassione?»
Mi guardò come quando vide la bandierina dell’UKIP appesa in cabina — come se non fosse un male necessariamente, ma come se non potesse aspettarsi di meglio da me.
«Devo pensare alla carriera» dissi. «È un trasporto a lungo termine.»
Rise, almeno quello. «Ma sul serio, non provi nemmeno un po’ di empatia?»
«E tu? Quando una delle tue recensioni manda in rovina un ristorante?»
«Non è proprio la stessa cosa, no? Nessuno obbliga uno chef stellato a servirmi un vol-au-vent che non può volare.»
Mister Hyde aggrottò il ciglio e disse con il suo accento italiano: «Nessuno obbliga questa gentaglia a nascondersi sul mio camion.»
Clark si voltò verso di lui. «Mi sembra che non ci siamo presentati.»
Risi per sdrammatizzare. «Non fargli caso, sua madre è italiana — in pratica è un immigrato pure lui.»
«Sono razzista» disse Mister Hyde. «Ecco. Scrivilo sul tuo maledetto giornale. Odio i clandestini perché amo il Regno Unito.»
Lo zittii. «Intende dire che se i clandestini fossero i vicini di casa di tua madre, vedresti la cosa in modo diverso. Se i tuoi figli non riuscissero a ottenere un appartamento perché i clandestini li precedono sulla lista delle case popolari, saresti stufo anche tu.»
«Quindi lamentate una carenza di case popolari, non una crisi migratoria, no?»
«Per noi sono la stessa cosa.»
«Per me no invece, e non mi importerebbe se queste persone si rifacessero una vita e fossero i miei vicini di casa.»
Mister Hyde aprì bocca ma lo guardai male per zittirlo.
«Per piacere» dissi, «sei nel camion sbagliato se vuoi parlare di filosofia. Quello che possiamo fare è semplicemente mostrarti com’è la situazione in prima linea, e i tuoi lettori potranno farsi le proprie idee.»
«Va bene, mi pare giusto. Allora la mia prima domanda sarebbe: come fanno i clandestini a farcela, se controllate sempre i vostri camion?»
«Alcuni camionisti non prestano sufficiente attenzione, no? Io non mi fermo nel raggio di cento chilometri da Calais, ma c’è sempre qualcuno che esaurisce le ore di guida consentite e deve fermarsi. Mentre riposi, i clandestini si nascondono nel carico, nei cerchioni, nello scompartimento del motore. È incredibile in che buchi riescono a infilarsi.»
«Ma i doganieri li trovano con gli scanner, no?»
«Errare è umano. Gli zombie ce la faranno sempre se son nascosti bene. E poi alcuni camionisti, dietro compenso, sanno come nasconderli.»
«Veramente? Ci sono camionisti che corrono questo rischio?»
Mi venne da ridere. «Senti, quanto guadagni in un anno?»
Ammiccò alla videocamera. «Cinquantadue sabati di noia in meno.»
«Beh, io guadagno ventotto mila sterline all’anno. Ho una ex moglie, una seconda moglie e quattro figli adolescenti. Se non fossi patriottico, potrei triplicare il mio guadagno. Sai, non tutti i clandestini sono al verde.»
«Sul serio?»
«È la situazione a esser seria. Esistono trafficanti sin dai tempi del cavallo di Troia. Sin dai tempi in cui Han Solo si appropriò del denaro di Wan Kenobi, in una galassia lontana lontana.»
«Il nostro chauffeur sta incominciando a starmi simpatico» disse Clark alla videocamera. «Mi aspettavo che un camionista fosse all’antica, ma forse questa professione merita più di quello che pensavo. Dì la tua con l’hashtag #clandestino.»
Attraversammo la periferia di Calais. Imboccai la corsia per i veicoli pesanti per metterci in coda al traghetto. Nella loro corsia i comuni mortali ci passavano di fianco, rifugiati provenienti dai loro posticini. Potevi leggere il labiale attraverso i finestrini mentre discutevano se ci fosse tempo per fermarsi all’ultimo supermercato, fare scorta di saucisson e quei quaderni scolastici di francese, quelli che hanno pagine piene di grafici.
Clark disse: «Cosa faresti se trovassi qualcuno sul retro del camion in questo momento? Cosa gli diresti?»
«Beh, innanzitutto dovrei levargli il brie di dosso. Ne stiamo trasportando diciotto mila chili.»
«No dai, sul serio.»
«Sul serio?» Appoggiai la mano sopra la webcam, assicurandomi di coprire sia il microfono sia la lente. «Noi due lo acchiapperemmo per dargli una man di botte, perché, per prima cosa, il carico sarebbe compromesso e l’azienda dovrebbe scontarlo di cento mila sterline; e seconda cosa, devi far capire a tutti che i camion britannici sono intoccabili. E la classica man di botte lo comunica in tutte le lingue parlate dai clandestini.»
«Oddio! L’avete mai fatto?»
«L’abbiamo fatto tutti. È una cosa normale.»
Levai la mano dalla webcam e lui disse, guardandola: «Il nostro camionista ha appena detto una cosa davvero sconcertante su cosa succede ai clandestini in caso vengano scoperti.»
«I tuoi lettori dovrebbero provare a fare il nostro lavoro prima di giudicarci.»
Guardò in camera di nuovo. «Ora che ci penso non so nemmeno cosa mi aspettassi. Pensavo che avessimo qualcosa in comune, ma devo dire che sono sconvolto e deluso. È come se questi camion avessero posto per quaranta tonnellate di carico, ma non per un pizzico di umanità.»
«Bravo. Te la sei preparata in anticipo?»
A quel punto appoggiò la sua di mano sopra la webcam. «Senti, non offenderti, ma ti presenti con la bandierina dell’UKIP e parli di malmenare gli indifesi, certo che ti faccio apparire come un coglione, cosa pensavi? Sto facendo il mio lavoro, come te.»
Dopodiché eravamo a disagio, in cabina. La coda alla dogana era terminata e spensi il motore, che fece quei rumori simili a sibili e sospiri — come se fosse alimentato da tristezza sotto un’incredibile pressione. I doganieri passarono lo scanner sul carico e poi fecero la perquisizione, partendo dal retro per finire in cabina. Quando videro Clark Kent, fu come se fosse Natale per loro. Con indosso l’uniforme, che carini — non ne avevano mai abbastanza di lui. E a dire il vero si comportò come un gentiluomo — firmò gli autografi, si mise in posa per i selfie, e girò la webcam per filmarli. Erano imbambolati di fronte alla videocamera e non controllarono nemmeno i nostri passaporti — avremmo potuto viaggiare con le tessere della biblioteca.
Più tardi, sul traghetto, pareva che Clark si fosse calmato. I fan lo avevano addolcito, ma noi eravamo Kryptonite. Eravamo nell’area riservata ai camionisti, al riparo dalle masse, e gli comprai persino caffè e brioche. Mi chiesi se aveva intenzione di recensirli, ma si limitò ad accendere la videocamera del telefonino per filmarci, sorseggiando il caffè mentre contemplava le onde del mare.
«Dai, su col morale» dissi. «Non dovrai vederci mai più dopo Dover.»
«È già qualcosa, suppongo.»
«Allora perché hai il muso lungo? Non sei mica arrabbiato perché aspetti una terrina di paté in ritardo?»
«È solo che mi dispiace tanto per loro. Non vedi come sono magri? E i loro occhi, mentre aspettavano sulla rampa. In completa disperazione. Pensa se non ti facessero entrare nel paese.»
«Pensa se ti facessero entrare nel paese, invece. Pensa dover scaricare novanta mila consegne di brie e guidare a casa a Ruislip sotto la pioggia. Pensa dover leggere le tue recensioni tutti i sabato mattina.»
«È la vita, no? Pare che la gente si aggrappi alle assi del tuo camion per aver le tue stesse opportunità.»
«Credo di essermi abituato a vederli.»
«Beh, io no. Vederli disperati per quello che abbiamo, ti fa capire ciò che abbiamo.»
«Ecco — hai fatto il primo passo. Il prossimo è ammettere che distruggeranno quello che abbiamo a meno che li teniamo fuori.»
Scosse il capo. «Non farò mai quel passo. Questa è la differenza tra me e te, suppongo.»
«Hai ragione, siamo diversi.»
Guardammo fuori dal finestrino di plastica. Non ho mai capito perché alla gente piace il mare. È freddo e inaffidabile. Sulla terra ferma non ti puoi fidare di un gatto o un economista. Per fortuna eravamo quasi già a Dover — è simile a un fosso, il Canale della Manica. Se fossi un clandestino, noleggerei un pedalò.
«Vuoi aggiungere altro a quello che abbiamo detto finora?» disse Clark. «C’è qualcosa che vorresti dire e non hai ancora avuto l’occasione di farlo?»
«Solo che spero che questo serva a far vedere alla gente la realtà. Siamo persone semplici, operiamo in base a semplici fatti, e il fatto è che non possiamo permetterci di accogliere i clandestini.»
«Beh, grazie per la disponibilità» disse Clark, spegnendo il video sul telefono.
Noi tre salimmo sul ponte per i camion, scendemmo passando di fianco a una serie di automobilisti per raggiungere il parcheggio dove si svolgeva il vero business del giorno. Mentre aspettavamo di sbarcare, chiesi a Clark di mettere via la webcam. Attraccammo e attraversammo il porto. C’era un furgoncino che vendeva fish&chips alla prima piazzola di sosta — First Plaice — e mi fermai perché era tardi e non avevamo ancora mangiato.
Mandai Mister Hyde a prendere il cibo anche per noi. Gli diedi la busta coi contanti che era sotto il mio sedile. Gli dissi di tenere il resto. Mi strinse la mano ed era fatta — se ne andò. Lo guardai svanire dallo specchietto laterale. Guardai finché non fu solo un puntino — un batterio — anche se bisogna tener presente che gli oggetti riflessi nello specchietto sono più vicini di quello che sembra.
La piazzola di sosta era deserta. Qualche gabbiano ci pedinava, beccando qualche patatina fritta caduta nella polvere. Si potevano vedere le bianche scogliere al di là dei tetti dei magazzini. A dire il vero, sono biancastre.
Passati cinque minuti, Clark Kent finalmente capì. «Non torna, vero?»
«No, a meno che gli venga nostalgia di casa e ci chieda di riportarlo indietro.»
Clark scoppiò a ridere, scuotendo la testa: «Dio mio»
«Scrivi una sola parola e giuro che dirò che eri d’accordo anche tu.»
«Okay. Va bene. Ma voglio dire…madonna! Sai da dove viene?»
«Siria. La maggior parte dei siriani sembrano italiani. Li tiro su solo se hanno dei documenti convincenti.»
Poi non disse più niente e si limitò a scuotere la testa mentre osservava i gabbiani.
«Sai cosa?» disse dopo un po’. «Non mangio fish&chips da non so quanto tempo.»
Ordinammo due porzioni grandi di merluzzo, mangiandolo appoggiati al paraurti. Inzuppai il mio con l’aceto. Clark ci mise solo una spruzzata. Annusò la bottiglia e fece una smorfia. I gabbiani ci chiamavano a loro modo, anime morte che prendono in giro i vivi.
«Quante volte l’hai fatto?»
«Abbastanza.»
«Ti fai pagare?»
Scossi il capo. «Senza offesa, ma sei il primo passeggero per cui ho accettato una quota.»
«Quindi perché lo fai?»
«È il brivido, no? Per essere diverso dentro. È l’ultima libertà che ci resta.»
«Come hai cominciato?»
«Come dicevi prima, cambia tutto una volta che vedi i loro occhi. Ti rendi conto che se riescono a sopportare tutto questo, allora forse puoi fartene carico in parte. Puoi anche aiutarli — la vita è breve.»
«È un breve viaggio in un lungo veicolo.»
Sospirai. «Tu queste cose le scrivi in anticipo.»
«Era il titolo che avevo in mente per l’articolo.»
I gabbiani aumentarono la velocità, sconcertati dalla propria libertà.
«Com’è il tuo fish&chips?» dissi.
Aggrottò il ciglio guardando la vaschetta di polistirolo. «Okay» disse. «Un po’ rustico.»
1. Partito anti-immigrazione il cui leader era Nigel Farage.
2. Enoch Powell fu un politico britannico, famoso per il suo discorso anti-immigrazione: ‘Rivers of Blood’ nell’aprile del 1968.