IL MIO FERLINGHETTI by Benedetta Faedi Duramy

Il mio Ferlinghetti

Lawrence Ferlinghetti è morto, ma questo lo sapete già.

Avete letto i suoi necrologi sui giornali italiani e forse anche su quelli stranieri. Avete appreso o ricordato che da molti è stato considerato la guida spirituale della Beat Generation. Ma lui non la vedeva così.

Semmai si definiva l’ultimo dei bohemiens. Magari in uno dei vostri pellegrinaggi a North Beach, il quartiere italo-americano di San Francisco, che di italiano non ha niente, siete entrati, per caso e quasi in fuga, nella sua libreria City Lights Booksellers & Publishers, e lì vi siete sentiti a casa per davvero. Forse perché è come un’isola in mezzo al traffico, lunga e sottile come la quinta di un teatro che taglia le correnti dei venti che arrivano dall’oceano. Forse perché è ombrosa e fresca come i sottoscala e profuma di legno umido e libri ingialliti. E forse anche perché vi ricorda le librerie che più avete amato e che vi hanno riparato da un temporale pomeridiano.
Io, che sono scappata a vivere a San Francisco oltre quindici anni fa dopo altre peripezie, Ferlinghetti non lo ho mai incontrato. Ma la sua poesia ribelle mi ha fatto compagnia al liceo nelle domeniche noiose da figlia unica.

Etichettato come blasfemo e provocatore, Ferlinghetti ha avuto la fortuna non solo di vivere fino a 101 anni, ma di vivere molte vite, tutte diverse, impossibili da immaginare per un uomo solo.

Orfano quasi alla nascita, adottato da una zia che lo portò in Francia, poi abbandonato in un orfanotrofio e finalmente allevato da benefattori, finì nei guai con la legge più volte, si laureò in giornalismo, passò la Seconda Guerra Mondiale in un sottomarino, completò i suoi studi a New York e Parigi, si sposò, ebbe figli e nipoti, e diventò Ferlinghetti tra le pieghe di una vita forse non sempre felice, anzi a volte infernale, perché come diceva “anche in paradiso non si canta sempre”.
La sua City Lights Booksellers & Publishers divenne il magazzino dei libri che nessun’altro vendeva e il salotto degli autori che nessun’altro pubblicava. Per me, la prima volta, fu come rientrare di sorpresa e oltreoceano dentro Fahrenheit 451 a Roma, o Shakespeare and Company a Parigi. Ero con il mio più caro amico di infanzia, sbarcati a San Francisco, per un giorno, con il treno locale, sfiniti dalle salite che lasciavano alle spalle Alcatraz e le punte del Golden Gate Bridge.

A pensarci adesso, forse era Ferlinghetti quell’uomo alla cassa su cui si posava la luce del tramonto, ma non me ne sono accorta. O magari, senza saperlo, lo incontrai al Dolphin Club ad Aquatic Park quando ancora nuotava nella baia glaciale che brucia la pelle. O era quell’ uomo che accennò un sorriso all’angolo di Haight Street, quando attraversai la strada per accompagnare mio figlio a scuola, e che insieme ai suoi The Old Italians Dying aspettava che arrivasse il suo turno.

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