UN GESTO DI BETTE DAVIS by Antonio Casto
Me, malauguratamente malato, malandato – maledetto malanno (malgrado malcelato) –, malmenato dal male, a malapena medicato, malmesso nel morale (magari malnato?), mendico di mestiere, i miei motti morbosamente mediati dal martirio, mallevadore mascherato del malessere.
Il sintomo principale della mia malattia è il dolore, un dolore acuto e imperterrito, che impatta la lucidità e impedisce il movimento, e che la lingua inglese ottimamente descrive col termine excruciating, dalla limpida etimologia latina excruciō – far soffrire, tormentare – con il prefisso ex- a rafforzare un verbo di per sé difficile da immaginare più duro, e cioè crucio, crocifiggere. Noi diremmo «straziante», che deriva da distrahere, ovvero smembrare, fare a brandelli - benché, con la tipica elefantiasi retorica della lingua italiana, una parola così fisica e materiale è stata assorbita dalla semantica del sentimento e degli stati d’animo, col risultato che diciamo «straziante» delle nostre emozioni, di una situazione a cui assistiamo, di una persona in difficoltà che ci stringe il cuore, ma meno frequentemente di un dolore fisico. In quest’ultimo caso si preferisce di solito «lancinante», che invece deriva da lancinare, lacerare. Ma quanta differenza tra il fare a pezzi e il mettere in croce! Scarto fra qualità di dolori. E io mi sento più inchiodato che sbranato – questa seconda opzione, a giudicare dal mito di Dioniso, piuttosto ebbra e liberatoria che punitiva come la crocifissione.
Nell’attesa di una guarigione che non si sa più se, come e da chi dovrebbe giungere, leggo molto, naturalmente, scruto il conto in banca che si assottiglia, con l’ultima entrata che risale a giugno, e guardo molti film. Nell’abbandono del letto, nel desiderio di evadere dal corpo, e di distrarre (distrahere?) la mente, ho finito per sciropparmi tutto d’un fiato film a cui mai avrei pensato di dedicarmi. Per esempio quelli più avventurosi di Robert Aldrich, così intriso diper me estranea americanità e machismo, tutto proteso verso western, avventure, guerre, guerriglie, attori sempre e soltanto virilissimi (Gary Cooper, Burt Lancaster, Kirk Douglas, Rock Hudson – nonostante tutto –, Lee Marvin, Michael Caine, Burt Reynolds, Peter Falk...), storie ciniche e truci, Apaches e Vera Cruz e sporche dozzine, abiti a brandelli e facce luride, e insomma abbastanza fuori posto nei nostri anni così cauti. Eppure, come un’altra faccia della medaglia, capovolto e compensatorio, autore allo stesso tempo di film al limite del camp, tra Baby Jane e Sweet Charlotte e Lylah Clare e Sister George, prediletto da Joan Crawford proprio mentre diventava icona gay, capace di passare come niente fosse da John Cassavetes che mitraglia nazisti a Valentina Cortese contessa e Rossella Falk lesbica attratta da una Kim Novak in odore di Sunset Boulevard.
Che inatteso brivido attraversa me, immobile e tutt’altro che avventuriero, nel seguire la lunga caccia su binari del cattivissimo Ernest Borgnine in The Emperor of the North Pole, con l’occhio basedowiano e il sorriso del male fine a sé stesso, dedito per mestiere ma soprattutto per spasso a picchiare a morte i vagabondi che cercano passaggi gratis a bordo dei suoi treni. Chi avrebbe mai detto (come poi ho scoperto) che un film del genere era tra i preferiti di Calasso? E chi avrebbe mai immaginato che mi sarei sorbito per intero e senza pause due ore e venti (sempre film lunghissimi...) di improbabile ricostruzione di un aereo da parte di un branco di scampati a un incidente nel deserto, nonostante il mio amore per James Stewart, qui protagonista, mio modello di comportamento civile dai 13 anni in poi? A un certo punto in questo film (The flight of the Phoenix) c’è un suo primo piano: un membro dell’equipaggio finge di aver preso una storta per non aggregarsi a un’esplorazione pericolosa, ma James Stewart lo scopre mentre quello corre, dimentico della zoppia. Lo sguardo di Stewart dura meno di 7 secondi, poi esce di scena. Sono sette secondi lunghissimi, in cui la muscolatura facciale si muove pochissimo (appena i solchi attorno alle labbra e le palpebre) ma sul suo volto passa di tutto, soprattutto una divina, imparziale superiorità: disprezzo, repulsione, il caldo impulso morale a rimproverare e quello freddo a ostracizzare in silenzio, infine barlumi di comprensione, perfino di divertimento, come un professore severo che sotto i baffi rida dei suoi studenti. Basterebbe quest’unico sguardo a fare di Stewart un attore insuperabile.
Ma ho visto tanti sguardi sorprendenti e imprevisti in queste ultime settimane. Philippe Noiret alla fine di Le vieux fusil, quando si riprende dallo shock e ricorda che moglie e figlia sono morti: gli manca il fiato, ha gli occhi rossi, poi però lo attraversa un ricordo felice del passato, e inopinatamente sorride. Certe facce incredibili e disorientate di Shelley Duvall in 3 women. Come riescano gli attori a reggere la finzione di uno sguardo sincero, davanti all’occhio invasivo di una macchina da presa a pochi centimetri dal viso, resta un mistero per cui provo ammirazione reverenziale, io che non riesco a essere me stesso nemmeno quando sono solo. La recitazione, questa dote che noi italiani applichiamo così bene nella vita, ma per cui non siamo affatto tagliati sullo schermo...
Niente comunque supera un gesto supremo di Bette Davis in The great lie, che a distanza di mesi ancora ho fisso in mente. Vengono ad avvisarla che il marito è scomparso durante una ricognizione aerea: «He’s been missing for twenty-four hours in the Brazilian jungle». Facile immaginare la reazione di qualsiasi altra attrice nel 1941: mancamenti, occhi strabuzzati o capovolti, mani che si aggrappano a poltrone, tavolini, persone, oppure vanno al petto o alla gola, pianti, urla trattenute, rotazioni di 180 gradi, o ancora calma piatta e gelo, passi verso la finestra, sguardi perduti nella distanza. Bette Davis socchiude gli occhi quasi infastidita, come per fare chiarezza, e con una mano nervosamente si scosta i capelli dalla fronte, in cerca di concentrazione: «Brazilian jungle? Missing?». È molto pratica: la paura c’è, c’è l’inizio del sospetto di qualcosa di tragico – ma vuole prima di tutto capire, come farebbe chiunque. Quel gesto così naturale e rapido, che pare quasi inconsapevole, sarà stata una trovata studiatissima, e risulta stupenda, sopraffina. Come per Stewart, questo minimo gesto ne definisce la grandezza. A 80 anni di distanza io vi assisto dal mio capezzale, e per un felice secondo la percezione del corpo passa in secondo piano. O saranno gli oppioidi?
Antonio Casto ha studiato fisica ed etologia, ha lavorato nel cinema e fa il traduttore di libri e articoli per lo più scientifici.