FARFALLE NELLO STOMACO di Giulia Vola
Introduzione al libro “Fallisci e Sei Morto” di Giulia Vola (in fase di pubblicazione) da cui è stato estratto questo racconto, ambientato in Giordania, gentilmente concesso dall’autrice.
Introduzione:
Fallisci e sei morto, ripeteva ossessivo un vicino di casa, un ragazzo bangladese, e io non volevo né fallire né morire e non volevo neppure che capitasse a lui. Così sono emigrata, almeno per un po’, alla ricerca dello spazio di chi si sente tagliato fuori. D’altra parte non mi piaceva per nulla questo gran parlare degli stranieri come fossero donne e uomini di un’altra specie, gente spinta da motivi futili, oscuri o incomprensibili, senza cuore e senza famiglia, senza passato né diritto al futuro.
Per questo ho fatto al contrario la strada di una dozzina di migranti sbarcati nel mio quartiere, San Salvario.
Sono tornata a casa al posto loro, dalle loro famiglie. Ho scoperto madri, fratelli, mogli, nonni e amici di persone che erano partite con tutt’altre intenzioni e oggi lavorano al mercato, per strada, nei ristoranti, nelle case, nelle chiese e negli ospedali intorno a casa mia. Ho dormito in ville lussuose, appartamenti come il mio e baracche con vista sui pilastri di edifici lasciati a metà. Ho riallacciato i fili di sogni cominciati in Bangladesh, nelle Filippine, in Giordania, in Marocco, in Egitto, in Burkina Faso, in Senegal, in Colombia, in Bolivia, in Ecuador, in Perù, in Cina e poi sciolti in Italia.
Sono partita il primo luglio 2009, avevo 27 anni, l’Isis non esisteva ancora e l’OMS aveva appena dichiarato l’allarme per l’influenza suina, la prima pandemia del XXI secolo. Sembra un’era geologica fa e per alcuni versi lo era: per fare il giro del mondo c’era il Round The World Ticket e bastavano tremila euro; ho attraversato da sola, donna bianca e occidentale, senza fede al dito e con un solo bagaglio a mano, il Sud America, l’Asia, il Medio Oriente e il Sahel senza che mi torcessero (né si torcessero) un capello e anche se negli aeroporti mi misuravano la temperatura e alcuni indossavano la mascherina, l’idea che dieci anni dopo ne avrei avuta una anch’io era fantascientifica. Allo stesso tempo sembra ieri, con le cose che, di certo, non vanno meglio: gli uomini, le donne e i bambini continuano a migrare e i governi in cui approdano a considerarli un’emergenza prima e un problema poi, mai una risorsa. Eppure sarebbe ora di imparare a gestire l’abitudine a muoversi perché abbiamo piedi e non radici e parecchi di noi, se nascessero di là e sapessero che di qua si sta meglio, prima o poi si metterebbe in moto.
Nel frattempo loro, i parenti dei miei stranieri e strattonati vicini di casa, mi hanno offerto divani e stanze liberate apposta per me. Mi hanno confidato racconti e bugie, mostrato città, presentato abitudini. Ho steso la mia biancheria a fianco alla loro, ho fatto il bagno in vasche con l’idromassaggio e la pipì sotto le stelle in un buco scavato nella terra. Nessuno (di loro) mi ha importunata, tutti mi hanno interrogata, molti mi hanno aiutata, qualcuno mi ha chiesto in sposa, qualcun altro, per via dei miei capelli corti, se sono malata.
Ovunque ho sentito profumo di casa: lenzuola e asciugamani puliti, zuppa di verdure, uova strapazzate, caffè, tè e detersivo che in quasi tutto il mondo è pastoso e sa di gomma da masticare.
E alla fine, dopo un milione e centonovantanovemila passi, mille e cento chilometri a piedi, nove mesi a salire e scendere da aerei, treni, barche, metropolitane, pullman, taxi, risciò e tuc tuc, ho riscritto le coordinate del posto che occupo nel mondo. Strada facendo ho ritrovato il mio spazio, dieci anni dopo gli ho restituito il loro. I miei vicini mi perdoneranno se a volte ho mescolato le carte e le storie, trasformando questo giro del mondo in un giro di vite, tra le vite.
Giordania - Amman
FARFALLE NELLO STOMACO
In Giordania ho scoperto come si cerca moglie. Andai a trovare Faisal, l’architetto urbanista ripiantato ad Amman, che nella città bianca dalle sette colline mi portò in giro come un trofeo, lui che dopo aver finalmente vinto la guerra, aveva abbandonato il campo. Mi sbandierava all’università, in famiglia, ma soprattutto tra le candidate. Sarei stata una specie di garante, gli avrei dato un tono, mi aveva spiegato, le aspiranti spose e pure i rispettivi padri e fratelli gli avrebbero dato più credito. Qui l’onore è tutto, e arrivare con degli amici importanti come te è una gran cosa, sentenziò.
Obiettai di non essere poi tanto importante, ma lui si mise a ridere. Nessuno avrebbe controllato, l’apparenza era più che sufficiente. Alla fine accettai.
La sua agenda era piena d’impegni. C’era un invito a un caffè - che però è molto più di un semplice caffè come lo intendiamo di qua - via l’altro. Lunedì a casa di Sabha, venticinque anni, studentessa di storia; martedì da Munà, farmacista ventottenne; mercoledì da Munira, trent’anni e ottima famiglia. E via così.
Quel giorno era domenica, il turno di Aisha, ingegnere agrario di ventisette anni. All’una, un’ora prima dell’appuntamento, chiamò Hasan, il mediatore, per dire che gli dispiaceva ma il padre della ragazza non era d’accordo per via della differenza d’età ma che, se Faisal avesse voluto, gli avrebbe presentato la cugina Wardah, di trentacinque anni e ottime credenziali. E perché no? Se per una che se ne va, ce n’è un’altra che arriva...
Per la sua ricerca Faisal aveva sparso la voce tra gli amici, all’università, dal farmacista, nel condominio e al mercato. Sua madre gli aveva già presentato tutte le cugine ma nessuna gli era piaciuta. Il suo agente immobiliare gli aveva proposto la nipote e lui l’aveva trovata troppo grassa. Stessa obiezione per la sorella. Aveva preso addirittura appuntamento con la figlia di un tizio che aveva tamponato con la macchina.
A cinquant’anni compiuti, Faisal stava per iniziare la sua terza vita, finalmente a casa sua, e aveva le sue belle pretese: la voleva colta, bella e benestante, non troppo in carne ma nemmeno deperita, non troppo religiosa, che lavorasse, che avesse le pelle chiara, gli occhi che ridono, l’intelligenza vivace e uno spirito indipendente.
Se funziona lo consiglio a qualche mio amico! gli dissi divertita. Lui non la prese sul ridere: era una cosa seria. Di certo non si mette su famiglia con la prima che si trova, rispose un po’ piccato. E poi tocca mantenerla, se va male. Suo fratello, per esempio, di mogli ne ha tre e sa bene che mantenerle tutte è un gran lavoro. La prima vive ad Amman, la seconda a Salt. Lui abita con la terza, nella Valle del Giordano. Ognuna ha una casa, gioielli, vestiti e mobili. Le donne si conoscono, spesso si coalizzano e quasi mai a favore del marito.
Quindi possibilmente deve andare bene, al primo colpo, che il mio stipendio lo voglio usare non solo per la famiglia ma anche per contribuire al cambiamento del mio Paese, concluse solenne Faisal. Aveva grandi progetti, lui che aveva inseguito la cittadinanza italiana per trent’anni e quando finalmente gli era arrivata l’aveva messa in valigia ed era tornato ad Amman portandosi dietro la sua Golf targata Torino. Sono nato nella Valle del Giordano, sono diventato un uomo in Italia e invecchierò qui, sospirò aspettando il semaforo verde. Io pensai all’enigma della Sfinge sull’animale che prima cammina a quattro zampe, poi su due e infine su tre e lui mi raccontò che in arabo c’è un proverbio che dice: se un uomo vive in un paese quaranta giorni, allora diventa uno di loro. Cercai i suoi occhi e ci trovai lo slancio autentico e rassegnato di un bambino invecchiato. Bisogna aver voglia di vivere la vita, e di viverla sempre, mormorò accertandosi che lo sentissi mentre accostava l’auto in una via in salita, costeggiata di case basse e bianche. Io sono giovane, qui, ho paura che mi sradichino in fretta, devo fare attenzione, voglio fare le cose per bene. E, anzitutto, voglio una famiglia, dei bambini in salotto.
Eravamo in anticipo, così mi raccontò la storia di Hasan il mediatore. Era sposato con sua cugina Sanà, lei era la seconda moglie e vivevano tutti insieme, senza gelosie. Io suggerii che magari le tensioni erano ben nascoste e lui scosse la testa e mi spiegò che Hasan la faceva viaggiare mentre i gioielli li regalava alla prima sposa che, ogni tanto, la trattava come una cameriera. Andava bene così: Sanà sapeva che prima o poi sarebbe arrivata una terza signora in casa, perché Hasan è ricco e inquieto, e allora anche lei avrebbe avuto una giovane governante ai suoi servigi e i suoi bei pacchettini da scartare.
Ascoltai la lezione e prima di formulare obiezioni, insieme alla campana di una chiesa, all’una esatta, Hasan il mediatore uscì. La casa di Wardah era poco distante. Camminammo svelti e zitti. Davanti al campanello mi dissero di rimanere in silenzio, che tanto avrebbero parlato in arabo e quindi non avrei capito niente. Io ero abbastanza tesa, infastidita e naturalmente curiosa.
Ci ritrovammo in un soggiorno che profumava di spezie, illuminato dai lampadari d’ottone accesi anche se non ce n’era bisogno, addobbato da troppi tappeti, troppi mobili e troppi vasi di fiori finti e impolverati. Ci sedemmo e quasi sprofondammo sul grande divano di ciniglia marrone, noi e loro: il padre, il fratello, il cugino e il mediatore della sposa. Wardah ci fece aspettare un’ora, come vuole la regola.
Un’ora che fu riempita da saluti e convenevoli, che in Giordania passano in rassegna tutti i membri delle rispettive famiglie e tribù. Faisal fece un gran sfoggio del suo passato in Italia lanciandomi occhiate complici e sorrisi casti. Tra il serio e il faceto, più tardi, mi disse che a tutti mostrava sempre la sua mezza verità. Diceva che l’Italia è la terra del diritto, tralasciava che la sua cittadinanza era arrivata dopo due rifiuti e parecchie incomprensioni. Diceva di aver insegnato all’università, ometteva che era successo grazie a una professoressa che gli aveva ceduto qualche ora a semestre perché senza la cittadinanza una laurea e un dottorato di ricerca non sono abbastanza per una cattedra. Diceva che aveva avuto un ristorante, taceva che per far quadrare i conti era lui il cameriere. Diceva che aveva insegnato l’arabo senza specificare che lo aveva fatto di pomeriggio, sui tavoli sparecchiati, per arrotondare. Diceva che aveva insegnato anche l’italiano agli stranieri, glissava che le lezioni erano gratuite perché il suo obiettivo era aiutare gli altri, i figli degli immigrati.
Wardah entrò nel salotto con un sorriso stampato e i capelli in piega, una camicia bianca e una giacca beige, pantaloni neri, di pelle, aderenti e stivali al ginocchio con tacco a spillo. Camminava come un funambolo troppo molleggiato, tenendo in equilibrio il vassoio di tazzine. Il padre, il fratello, il cugino, il mediatore, Faisal e Hasan la squadrarono alzando a mala pena gli occhi, senza smettere di discutere della fatwa del consiglio religioso nazionale che aveva vietato il controllo della verginità prima delle nozze.
Faisal si schiarì la voce: a sentire i medici, l’ottanta per cento dei delitti d’onore sacrifica delle vergini, si permetteva di dire. Gli altri borbottavano, non erano molto d’accordo, lo ascoltavano solo in virtù del suo passato in Occidente, della sua laurea e del suo bel completo blu di sartoria. Doppio petto. In Giordania sono molto bravi a vedere solo quello che fa comodo, mi spiegò dopo rivelandomi quanto si era divertito in quel balletto di equivoci.
E infatti, fatwa o non fatwa, il test lo pretendono quasi tutti qui, aveva rimarcato serio e severo per affermare il suo status, e così le donne, anche se non è legale, quand’è ora di sposarsi sborsano mille dollari e ritornano pure, concluse con un chiaro e composto gesto sprezzante della mano che suscitò l’ammirazione dei presenti.
Era senza paura, Faisal. Si fidava della sua intelligenza creativa e curiosa e non temeva la verità. Aveva masticato quelle degli altri, crude e amare, le aveva digerite senza scomporsi certo che, prima o poi, sarebbe arrivata anche la sua. Nel frattempo aveva imparato a servirle, edulcorate.
Wardah sembrava non accorgersi di nulla, concentrata com’era a servire bene il caffè che di là è nero come la notte, dolce come l’amore e forte come la morte, alla maniera turca. Perché nel rito del caffè la donna deve dimostrare di essere non solo bella ma anche discreta e garbata. Le tazzine vanno riempite fino all’orlo: versarne fuori una goccia è come mancare di rispetto. Si muoveva piano, Wardah. Guardava Faisal di nascosto perché, dicono, bastano pochi minuti e si capisce se si è fatti l’uno per l’altra.
Finito il giro si sedette accanto alla madre, avrebbe potuto dire la sua ma non lo fece perché non sta bene. Fu Faisal a darle voce senza mai interpellarla, domandando al padre che studi avesse fatto, se era brava a cucinare, se parlava inglese, se aveva il passaporto, se aveva viaggiato e soprattutto se poteva avere figli.
Inshallah.
Certo, Inshallah.
Io la spiavo. Wardah ascoltava suo padre rispondere al posto suo senza vergogna, anzi, con un filo di fierezza per l’interesse di Faisal. Un bel momento si alzò, raccolse le tazzine vuote, sorrise e tornò in cucina ondeggiando sui fianchi, lasciando una scia di profumo troppo dolce. Faisal mi fece segno di seguirla e io le andai dietro.
Funziona così, mi spiegò Wardah in un inglese impeccabile quando ci ritrovammo da sole: compiuti i vent’anni il padre, il fratello o lo zio cercano i candidati per la prova caffè. Passata quella, la donna è piazzata e la questione risolta.
E dove li trovano?
Ovunque. Spulciano tra amici, cugini e parenti all’estero.
E come lo scelgono?
Facile: un buon candidato deve avere buone referenze e un mediatore affidabile, una garante disposto a mettere in gioco la sua credibilità e la sua reputazione. Qui è tutta una questione di onore: è più importante della vita, disse usando le stesse parole di Faisal. Veniamo scelte dagli uomini ma siamo libere di rifiutarli, precisò guardandomi dritta negli occhi e sbattendo le ciglia appesantite da troppo mascara. Perciò è molto importante avere le idee chiare, ribadì pure lei.
E naturalmente anche le sue erano chiarissime. Voglio un marito agiato, colto, gentile, che ami il suo lavoro e abbia viaggiato. Aspetto ed età non m’interessano più di tanto, basta che sia pulito e profumato. Per questo ho accettato di conoscere Faisal nonostante abbia vent’anni più di me. Lui è un professore universitario e ha vissuto più di mezza vita in Italia.
Forse si aspettava che io dicessi qualcosa, ma le parole non mi uscirono di bocca e così proseguì.
Qui in Giordania, continuò, l’amore come si vede nel vostro cinema non esiste. Noi cerchiamo il rispetto, l’equilibrio e una vita comoda.
A dire il vero tutto questo lo vorremmo anche noi.
Sì, ma noi abbiamo più probabilità di trovarlo perché prima di conoscere i nostri pretendenti sappiamo già tutto di loro. Mia madre e mia zia si sono informate su Faisal. So che guadagna quarantamila dinari l’anno (che sono un po’ meno di quarantamila euro, ma per vivere lì sono tanti soldi), che non ha debiti, che arriva da una buona famiglia di una tribù in pace. Che vive in una bella casa in centro città e che lavora all’università al mattino per quattro giorni a settimana, che è un buon musulmano, che ha una mente aperta, che ama il cinema e gioca a scacchi nel tempo libero. Che altro devo sapere?
Iniziò a spennellarsi gli zigomi ricoperti di fondotinta con un fard troppo rosa che alla fine sembrava una di quelle donne del circo.
Sia chiaro, rimarcò, io non avrei mai scelto un marito da sola. Qui nessuno lo fa, non è serio. E nessun uomo sposerebbe una donna conosciuta per strada.
E perché? Dove lo mettiamo il cuore che batte? Le farfalle nello stomaco?
Lei quasi inorridì: le farfalle nello stomaco?
Non ce le mangiamo, la rassicurai, è solo un modo di dire.
Il fatto, mi confidò mormorando, è che se qualcosa va storto, voi siete sole. Noi non ci possiamo permettere un fallimento. Perché se va male e ce ne torniamo a piangere a casa di papà rischiamo pure di essere ammazzate. E anche se io non sono come mia madre che è ancora convinta che sia meglio veder morire una donna piuttosto che assistere alla vergogna di un’intera famiglia disonorata, sono sana di mente. Qui tuo padre è il tuo dio, aggiunse seria. E sebbene il mio sia un dio buono, la maggior parte degli altri padri non lo è. Perciò ogni donna sana di mente che tiene alla propria vita ci pensa due volte prima di fare la stupida, che un pettegolezzo basta a condannarti e se ti fanno fuori, quelli se la cavano con pochi mesi di carcere e, dopo la liberazione, pure un benvenuto da eroi.
Certo, capisco. Ma mi restava ancora un dubbio: le donne stuprate.
Di certo non lo vanno a raccontare in giro, mi zittì. Piuttosto, corrono a rifarsi l’imene e pagano bene chi deve tenere la bocca chiusa.
E se lo stupro viene fuori?
Wardah si rabbuiò: in quel caso l’unica possibilità è rifugiarsi in prigione e aspettare il perdono dalla famiglia, che però non arriva quasi mai. E quando arriva, spesso è solo una trappola e la maggior parte viene ammazzata subito dopo aver rimesso piede in casa.
Mi domandò come funziona in Italia. Stavo per risponderle che da noi il delitto d’onore è un reato dal 1981 ma che ogni anno più di cento donne vengono uccise da uomini che si giustificano con l’amore, Wardah però mi zittì: era ora di rientrare in salotto.
Di là, nel frattempo, il padre non aveva mai smesso di snocciolare i grani del suo tasbeeh, il rosario musulmano che in Giordania chiamano masbaha. Non quello da 33 grani che tutti sgranano ovunque, al bar, sul pullman, in coda, ma quello più importante, da 99 grani più uno, per ripetere i 99 Bei Nomi di Dio e ricordarsi che cosa non è Dio. Il fratello aveva offerto mele, banane e clementine. L’aria si era saziata di profumo e avevano cominciato a chiacchierare del più e del meno. Brutto segno. Perché se la scintilla scocca, mentre la donna è in cucina il candidato chiede agli uomini di casa altri dettagli su di lei.
In quel caso però non era scoccata e Faisal aveva discusso di politica, si era informato sulla salute di alcuni capo tribù e dei prezzi delle melanzane che erano cresciuti. Ormai lo sapevano tutti tranne lei, Wardah, scartata perché aveva la pelle troppo scura, come Faisal mi spiegò più tardi, tornando a casa. Tutti questi anni in Occidente gli avevano cambiato i gusti. Se ne era lamentato lanciandomi un’occhiata di troppo e perfino una proposta di matrimonio che io presi come uno scherzo ma non lo era del tutto, anche se poi non ne parlammo più e restammo amici sempre.
Intanto, l’ignara Wardah era rientrata nella sala sorridente, un po’ troppo sciolta e decisamente molto truccata. Era il momento di servire altro caffè, questa volta al cardamomo, che è afrodisiaco, e va versato in tazzine piccole e senza manico. Ne basta pochissimo perché si beve più volte, fino a quando gli ospiti non svuotano la tazzina, la scuotono in segno che basta, va bene così, e la prova caffè è davvero finita. Allora tutti si alzano, scoppiano sorrisi e abbracci di cortesia, schioccano baci sulle guance e nascono promesse di vedersi al più presto.
Inshallah.
Inshallah.
Giulia Vola, giornalista e autrice di spettacoli teatrali.