REVOLUCIÓN by Andrea Crosa
La mamma di Mendez è molto bella, anzi sembra quasi una diva del cinema. La osservo di nascosto sperando che non se ne accorga mentre fuma aspettandoci all’uscita di scuola.
Ha i capelli biondissimi molto corti e indossa sulla nuca un cappellino che sembra una ciotola rovesciata in tinta col vestito bianco stretto in vita da una cintura aragosta. Lo stesso colore dello smalto e del rossetto che lascia un piccolo alone attorno al bordo della sigaretta. Tira indietro la testa facendo uscire il fumo dal naso mentre guarda in alto assorta e persa nei suoi pensieri. Una leggera brezza mi porta il suo meraviglioso profumo dolce e intenso.
Improvvisamente si gira verso di noi e sorride felice scoprendo i denti bianchi e bellissimi, getta via la sigaretta appena incominciata, si inginocchia aprendo le braccia per accogliere amorevolmente suo figlio, il mio primo migliore amico.
La mamma di Mendez è sempre allegra e molto elegante. Oggi indossa un paio di guanti corti di pizzo bianco e una borsetta trasparente dove si vede in gran disordine tutto quello che c’è dentro e che pare venga dall’America.
Mendez ed io siamo compagni di classe e quando la mattina nell’immenso cortile della scuola tutti noi allievi cantiamo l’inno nazionale durante l’alzabandiera, siamo fianco a fianco. Davanti a noi c’è soltanto Villafane che è il più basso di tutti. È un bellissimo bambino magrolino e molto triste, con dei grandi occhi blu scuro bordati di giallo attorno all’iride e ciglia lunghe, dritte e nere. Tutti lo trattano con affetto perché pare sua mamma sia morta da poco e questo lo rende molto speciale ai nostri occhi. Per esempio nessuno gli infila un dito o una matita su per il sedere mentre cantiamo perché dobbiamo stare composti, allineati e soprattutto immobili. Invece noi che non siamo tristi e che per fortuna abbiamo ancora la mamma, siamo obbligati a tenere la mano destra sul davanti a proteggerci il pisello e quella sinistra sul didietro a proteggerci le chiappe ma soprattutto per pizzicare il pisello al malcapitato che sta dietro. Insomma il tutto è piuttosto complicato anche perché gli insegnanti sono sempre lì che ci ronzano attorno a controllare la disciplina e danno volentieri dei punti di demerito che non possono superare i sei a settimana altrimenti fioccano le punizioni. Inoltre, come se questo non bastasse, dobbiamo cantare bene senza stonare né tantomeno ridacchiare il che, data la situazione, è molto ma molto difficile.
Mendez ed io siamo alti uguali e abbiamo entrambi le gambe secche secche e le calze ci cadono sempre giù e si ammucchiano sulle scarpe. Lui porta i pantaloni grigi dell’uniforme più corti dei miei che mi arrivano giusto sopra al ginocchio e a me pare strano perché lui è sempre raffreddato e quindi dovrebbe stare un po’ più coperto. Ha quasi sempre un moccio verde che gli blocca come un tappo uno dei buchi del naso e io sono costretto a fare finta di niente per non metterlo in imbarazzo ma francamente mi fa parecchio schifo. In più soffre d’asma e durante la lunga ricreazione che abbiamo dopo pranzo non deve assolutamente correre altrimenti comincia a respirare con una specie di fischio e sembra che abbia delle pietroline in gola. Allora tira fuori una pompetta di gomma con un tubicino di vetro che porta sempre con sé e si spruzza una medicina in gola che gli apre i polmoni. Io però ho sempre paura che muoia come quel giorno che cadendo ha distrutto l’asma pull e hanno dovuto portarlo a casa di corsa.
Ultimo della fila è invece il mio secondo migliore amico Medveedi. Dato che non ha nessuno dietro si deve solo proteggere il pisello perché il sedere è irraggiungibile. Comunque nessuno si azzarderebbe a dargli fastidio perché è alto e grosso e ha delle manone e dei piedoni e un cesto di riccioli piccoli piccoli in cima alla testa. Porta degli occhiali spessi dietro i quali appaiono due occhi azzurri e pungenti su un volto dalla pelle bianchissima coperta da piccole efelidi. La cosa che lo rende davvero unico è un paio di poderose orecchie a sventola che quando batte il sole da dietro diventano traslucide mostrando una ragnatela di venuzze minutissime all’interno. Medveedi è piuttosto goffo e quando si muove pare il gatto Silvestro che adoro, mentre io sembro il canarino Titti che non si capisce molto bene cosa sia perché porta delle scarpe enormi ed è senza ali e comunque è veramente, ma veramente odioso. I miei compagni mi dicono di non giocare con lui perché è ebreo ma dato che non so cosa voglia dire continuo a farlo perché è il mio secondo migliore amico e con lui mi diverto moltissimo. Mi ha raccontato che i suoi vengono dalla Romania che immagino sia qualcosa in Italia e quindi le nostre due famiglie forse vengono dalla stessa Nazione. Lui però non sa una parola d’italiano mentre io invece lo parlo regolarmente in casa. Suo nonno gli ha insegnato una canzoncina che fa così: “Menelik clik clik clik clik regina Taitù Taitù Taitù son la rubiii na son la rubiii na della gio ven tù”. Gli faccio gentilmente notare che non si dice “rubina” ma rovina ma lui si intestardisce e ripete che se suo nonno dice così, così è giusto. Io lascio perdere però si dice rovina, ne sono certo.
Durante la ricreazione Medveedi ed io ci scambiamo la merenda che portiamo da casa. La sua è sempre un po’ spiaccicata perché la mette in cartella con i libri sopra e anche se ha un aspetto non proprio invitante è davvero buonissima. Avvolto in carta stagnola appare un panino al latte con all’interno uno strato di burro e una cremina marrone deliziosa che non riesco a identificare. “Chiedi a tua mamma cosa c’è dentro”, continuo a dirgli ma lui si dimentica sempre. Il mio invece è un tramezzino con burro, formaggio bianco e prosciutto cotto. Lui lo guarda incuriosito e mi chiede cosa sia. “Prosciutto” gli rispondo un po’ perplesso e lui mi confessa che non l’ha mai assaggiato perché è ebreo. A me francamente sembra un’idiozia ma dato che a lui piace il mio e a me piace il suo ci accordiamo per lo scambio segreto e giornaliero.
Comunque un giorno senza preavviso e con aria da cospiratore tira fuori il suo panino e dice “Lebergusch”. “Lebergusch? – dico io – ma di che stai parlando?”. “È quello che c’è nel panino, lo dice mia mamma”. Quindi non appena torno a casa comunico con grande determinazione che d’ora in poi voglio, anzi vorrei, la merenda col Lebergusch. Nessuno riesce a capire cosa mai possa essere il misterioso ingrediente e dopo un’inchiesta piuttosto serrata tra amici, conoscenti e inquilini del palazzo, la vicina del secondo piano che è tedesca azzarda l’ipotesi che possa trattarsi del “Leberwurst” una salsiccia morbida e spalmabile a base di fegato. “Fegato? – grido inorridito – ma a me fa schifo! No mai e poi mai!”. La sua assoluta bontà però prende il sopravvento e trionfalmente vado a scuola portandomi dietro il mio tesoro. Medveedi a questo punto però rimane senza il prosciutto, non si lamenta più di tanto, ritorna a essere ebreo e siamo tutti felici e contenti.
La mamma di Mendez ha promesso di portarmi a casa con la sua nuova macchina appena arrivata dall’America. Secondo il mio primo migliore amico, che è un po’ bugiardino, non soltanto è un regalo del Presidente della Repubblica per il suo compleanno ma ha anche una parte del tetto trasparente!
Sono sicuro che questa volta Mendez l’abbia sparata proprio grossa ma sotto sotto sono un po’ invidioso, e se fosse vero? Perché a mia mamma che è bella tanto quanto la signora Mendez nessun presidente ha mai regalato una macchina? La nostra è veramente brutta e triste, una Chevrolet nera custom con gli interni e i sedili scivolosi in plastica grigia che ti si attaccano alle cosce e ti fanno sudare la schiena d’estate come d’inverno.
Invece è proprio vero e non ci posso credere: scintillante al sole appare una Mercury Montclair Coupé come è scritto in corsivo sul parafango anteriore – rosso aragosta e avorio, le cromature abbaglianti e le gomme coi fianchi bianchi e, naturalmente, la metà del tetto in vetro verde chiaro.
Mendez mi guarda con aria di sfida come a dire “te l’avevo detto” e a me vien voglia di dargli un pugno sul naso, ma se lo facessi non mi farebbe più salire in macchina e in questo momento non vi è nulla al mondo che io desideri di più.
La mamma di Mendez intuisce la mia gioia e la mia impazienza e con un inchino accompagnato da un sorriso smagliante mi apre la portiera e mi fa entrare. L’odore di macchina nuova assieme al profumo della signora Mendez mi fanno entrare in Paradiso. Il volante bianco a calice con la corona cromata, la strumentazione a forma di ventaglio su fondo avorio, la radio e l’orologio inserite nel cruscotto i sedili soffici e accoglienti in tinta con la carrozzeria e intessuti con fili d’argento, la moquette di lana color aragosta che ci si sprofonda dentro e il tetto trasparente che mi fa vedere il cielo sopra la testa completano il sogno. Ammutolisco quando mette in moto e il motore emette un gorgoglio profondo e musicale e quando inserisce il cambio automatico e la macchina parte in un soffio silenzioso. Mendez si diverte a fare salire e scendere i finestrini premendo un pulsante, cosi tanto per infastidirmi e la smette soltanto quando sua madre gli dà uno scappellotto in testa. Rimango muto anche quando arrivo a casa e devo scendere: il viaggio è durato troppo poco. Li vedo andare via mentre Mendez mi saluta con la mano dal lunotto posteriore e mi fa le boccacce. Poi la macchina svolta a destra e sparisce in un attimo.
Sono due giorni che Mendez non viene a scuola ma io non sono preoccupato, o forse sì? Comunque è sempre malato, ha l’asma, è sempre raffreddato e in più litiga continuamente con suo fratello. Si azzuffano, si picchiano e si mordono rotolandosi sul pavimento, ma siccome lui è malato, o così vuole fare credere, quando è in difficoltà comincia a urlare come un ossesso finché la madre non li separa. E chi finisce sempre in castigo? Naturalmente suo fratello, ma solo perché è più grande di un anno.
Ieri ho chiesto a mia mamma di telefonargli per sapere come stava ma lei mi ha risposto che non era proprio il caso chiudendo così qualunque possibilità di comunicare e lasciandomi senza notizie. Di sicuro sta succedendo qualcosa che lei sa e non mi vuole dire.
Stamane mentre stiamo facendo i compiti di matematica che a me proprio non piace, improvvisamente entra in classe la Vice Preside e ci informa che le lezioni sono temporaneamente sospese. Un mormorio di sorpresa serpeggia tra di noi che ci guardiamo in faccia per cercare di capire meglio. Mi giro verso Medveedi che è seduto all’ultimo banco e come al solito, distratto e un po’ stordito, non ha sentito niente mentre cerca di fare i conti con le dita. Poi alza la testa, mi vede e mi sorride come per dire “sì sì ci sono!”. La Vice Preside intanto ci comunica che i nostri genitori sono stati informati e verranno a prenderci per riportarci a casa non appena possibile. Poi in tono drammatico annuncia. “È scoppiata la Rivoluzione!”. La maestra cerca di tranquillizzarci anche se nessuno di noi pare agitato, o forse cerca di tranquillizzare se stessa ripetendo: “Va tutto bene bambini, va tutto bene”. In realtà nessuno di noi sa cosa sia una rivoluzione, quindi aspettiamo con calma che vengano a chiamarci via via che i nostri genitori arrivano.
Mia mamma invece sa benissimo cos’è una rivoluzione perché non appena giungo a casa mi fa sistemare sotto il tavolo della sala da pranzo – chissà perché – mentre passeggia avanti e indietro fumando nervosamente. La radio è accesa e dalle ultime notizie pare che le forze armate abbiano circondato il Palazzo Presidenziale con almeno quattro carri armati con i cannoni puntati contro, pronti a fare fuoco. Nessuno sa dove sia il Presidente che pare abbia chiesto asilo politico all’ambasciata di un qualche paese amico. Pare anche che sia già scappato in nave da almeno due giorni assieme ai suoi fedelissimi, portandosi via valigie piene di dollari e lingotti d’oro. Mio padre cerca di calmare la mamma dicendole che in questo paese le rivoluzioni sono all’ordine del giorno, ma questo non sembra produrre l’effetto desiderato. Anzi tutt’altro perché sempre più agitata comincia a dire che non ha lasciato l’Italia ancora in ginocchio dopo la guerra per finire in culo al mondo nel bel mezzo di una rivoluzione.
“La mamma ha detto culo – dico io da sotto il tavolo – l’ho sentita benissimo!”. Entrambi si girano verso di me e mio padre fa: “Zitto tu”, capendo che la situazione può degenerare da un momento all’altro e diventare incontrollabile. Allora dico “culo culo culo” e lo ripeto all’infinito a voce bassissima perché rischierei davvero un bel ceffone. Vedo attraverso la finestra due aerei da guerra color argento e col muso appuntito volare vicinissimi e appaiati per poi scendere in picchiata e sparire. “Gli aerei – grido – stanno bombardando!”. Mia madre corre verso la finestra seguita da mio padre. Poi un filo di fumo nero sale veloce verso il cielo. “Oh mio Dio!” fa la mamma e si accascia sul divano.
“Devo fare la pipì” dico io che sono stufo di stare sotto il tavolo senza far niente. Mio padre mi lancia uno sguardo come per incenerirmi sul posto poi con un cenno della mano mi da il via libera mentre abbraccia la mamma che gli appoggia la testa sulla spalla. Furtivamente corro in camera mia, mi tolgo le scarpe e prendo quante più macchinine posso. Di nuovo sotto il tavolo le sistemo sul tappeto. Il bordo laterale diventa cosi la strada e i quadrati interni, le case coi giardini, insomma una piccola città. Posso pensare a un gioco complicato dato che la mia permanenza là sotto sarà parecchio lunga. La radio trasmette sempre meno notizie sugli insorti e aumentano i brani musicali, il che fa pensare che la situazione stia piano piano ridiventando normale.
Mi sveglio di soprassalto perché stanno approntando la tavola per il pranzo. Ma quanto ho dormito? A questo punto tra uno sbadiglio e l’altro mi sembra che la rivoluzione sia quasi finita e se Mendez e la sua famiglia sono scappati col Presidente mi domando che fine avrà fatto la Mercury aragosta e avorio col tetto di vetro.
Se domani torno a scuola Medveedi diventa il mio primo migliore amico.