LE VIE DEI CANTI di Marta Spizzichino

Un giovane ungherese, sfinito dopo aver scalato il Monte Sacro, venne sulla terrazza e si sedette a contemplare il mare in tempesta. Era un epidemiologo, ma aveva smesso di lavorare per scalare montagne sacre del mondo. Sperava di scalare il Monte Ararat e di fare il giro del Monte Kailash, nel Tibet.

“L’uomo” disse improvvisamente, “non è stato creato per stare fermo”.

Era una cosa che aveva imparato studiando le epidemie. La storia delle malattie infettive era una storia di uomini che si crogiolano nella loro sporcizia. Osservò anche che il Vaso di Pandora era un’urna di coccio del neolitico.“Dammi retta,” disse “le epidemie faranno sembrare le armi nucleari tanti giocattoli inutili”.

Le vie dei canti, Bruce Chatwin, Adelphi

Sono grata a Chatwin per i racconti e la sua curiosità magnetica, ma tale gratitudine non è disinteressata. La leggerezza che mi accompagna in questi giorni di più o meno volontaria reclusione la devo a lui e ai suoi racconti, che mi permettono di vagare per le lande del bush australiano e le catapecchie degli Indios sul Rio Negro.

Ne Le vie dei canti - un ibrido tra un taccuino, un diario di viaggio e una raccolta di aforismi - trovo lo svago che solitamente pretendo dai viaggi, e che in piena pandemia esigo dalla carta stampata.

Mi perdo tra i canti degli aborigeni, le loro oniriche narrazioni e le divagazioni sulla lingua che cantata descrive il mondo.

Ogni Antenato aprì la bocca e gridò: “Io sono!”. “Sono il Serpente… il Cacatua… la Formica del Miele… il Caprifoglio…”. E questo primo “Io sono”, questo primordiale “dare nome”, fu considerato, da allora e per sempre, il distico più sacro e segreto del Canto dell’Antenato. (…) Ogni Uomo del Tempo antico muovendo un passo dopo l’altro diede nome al pozzo, ai canneti, agli eucalipti: si volse a destra e a sinistra, chiamò tutte le cose alla vita e coi loro nomi intessé versi.

Gli Antenati, che avevano creato il mondo cantandolo, erano poeti nel significato originario di poiesis, creazione. Nessun aborigeno poteva concepire un mondo creato in modo imperfetto. A loro era dunque demandato un unico compito: conservare la terra com’era e come doveva essere.

Gli Uomini del Tempo Antico e le generazioni future devono aver percorso tutto il mondo cantando prima i fiumi, poi le catene montuose, le saline e le dune di sabbia e ovunque misero piede lasciarono una scia di musica: il mondo intero diventò così una rete di canto.

L’universo come spartito è un’idea poetica, lontana, ancestrale che ha qualcosa in comune con l’epicità dell’Iliade e dell’Odissea. M’immagino gli aedi in versione aborigena intorno ai falò, tutti impegnati nel cantare le Vie dei propri antenati.

Non c’era roccia o ruscello, si può dire, che non fosse stato cantato o che non potesse essere cantato. Forse il modo migliore per capire le Vie dei Canti era di pensare a un piatto di spaghetti ciascuno dei quali è un verso di tante Iliadi e Odissee, un intrico di percorsi dove ogni “episodio” è leggibile in termini geologici.

Dei numerosi viaggi di Chatwin in giro per il mondo rimangono le note sulle agende Moleskine, le foto, i racconti e i film di Herzog, che da alcuni di questi prendono ispirazione. È nel suo ultimo film, Nomad, che il regista ripercorre insieme al leggendario zaino dello scrittore le vie da lui battute.

Tale film, come le Vie dei canti, è un’apologia del camminare perché il mondo si sa, si rivela a chi lo attraversa a piedi.

E chi ha detto invece che viaggiare è un flagello? Con le parole di Robert Burton, potremmo dire piuttosto che è il rimedio alla malinconia, ossia agli effetti deprimenti della vita sedentaria. (…) Contro questa malattia, non c’è nulla di meglio che cambiare aria, vagabondare qua e là, come quei tartari zalmoensi che vivono in orde, e colgono le opportunità che offrono loro i tempi, i luoghi e le stagioni.

La vita nomade è stata a lungo considerata un comportamento anomalo e non è un caso che su tale presupposto i nazisti perseguitarono zingari ed ebrei, popoli etnicamente portati al nomadismo. Chatwin ricorda poi le virtù che corredano tanto la migrazione quanto la spedizione militare: organizzazione e flessibilità, perché alle tue spalle l’erba potrebbe avvizzire. Davanti a te la neve potrebbe bloccare i passi.

Alle scellerate azioni di Hitler risponde la saggezza mansueta tipica degli orientali secondo cui la vita errabonda ristabilisce l’armonia originaria che esisteva una volta fra l’uomo e l’universo (…).

A pandemia finita non escludo di voler ristabilire tale armonia. Potrei cominciare con l’inospitale Patagonia, dove le distese di bassi rovi dalle foglie grigie occupano la maggior parte del territorio. Potrei poi visitare il British Museum dove è custodita la pelle di Brontosauro - milodonte o bradipo gigante per i meno romantici -, o ancora vagare tra le dune brulle australiane. Nel frattempo mi godo il tepore che la casa offre, e che - a dispetto dei suoi racconti - Chatwin mi ha insegnato ad apprezzare.
Sono sul divano e sogno il Mare di Timor, i pozzi naturali, la Cornovaglia e l’Australia, di cui ora posso dire di conoscere indirettamente le vie. Conosco meglio però i vicoli della mia città, Roma, i cui i tetti, alberi e ponti hanno ancora tanto da raccontare: è da loro che potrei cominciare per scrivere le mie Vie dei canti.

 

Marta Spizzichino, classe ’95, romana da generazioni. Laureata in Filosofia studia ora Biotecnologie ambientali. Escursionista entusiasta, lettrice appassionata, convinta europeista. Cura una rubrica di libri sul giornale della comunità ebraica di Roma SHALOM.it. Ama la lingua e la cultura austro-tedesca, il Bretzel al burro, Primo Levi e Stefan Zweig.

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