RABESCO di Nico Stringa
Questo racconto è tratto dalla raccolta In punta di penna cura di Dario Borso, risultato di un laboratorio di scrittura nato a partire dalla Biblioteca Inclusiva della Fondazione Bertini Malgarini col supporto del MiBACT.
© Biblioteca Inclusiva, FEM Human Library, Tutti Matti per i Libri
La Salute inTesta, Cooperativa Lotta contro l’Emarginazione. 2020
RABESCO
Rabesco cammina all’indietro.
Avrà dieci anni – e cammina all’indietro.
Eccolo venire da laggiù, retrocedendo a piccoli passi, solo chi conosce a memoria può camminare come lui, ogni suo passo è un ritorno, eccolo il ritornante, che smuove tanta gente a parlare di lui.
Mentre noi, la maggior parte di noi, lo osserviamo avvicinarsi, lui guarda l’oggetto che si allontana, osserva la dissolvenza.
Solo dopo la sua sparizione, in tanti o pochi, abbiamo capito.
Era una necessità.
Perché Rabesco? Nessuno lo sa. Così l’ha chiamato qualcuno, senza motivo. E così tutti hanno continuato a chiamarlo. Poi, un giorno, non l’abbiamo visto più e con lui se n’è andato anche il suo nome.
Cosa non c’è in un nome, ha scritto qualcuno. Ma nel suo, di nome, nel nome Rabesco, non c’era niente.
Non la sua ascendenza, non i suoi parenti, non il suo carattere, la sua forma. Niente. Neanche lui, perché per gli altri era niente. Era una scheggia, un qualcosa in movimento. Un contrattempo.
Era stato trovato, addormentato, su un carro di fieno. Non parlava, non ha mai parlato. E non
sentiva. Non sentiva ma ascoltava a volte, ed era come se sognasse. Chiudeva gli occhi, apriva la bocca e aspirava.
Rabesco si teneva a distanza.
Compariva all’improvviso (sapeva anche correre) e allo stesso modo spariva. Dormiva nei fienili e accettava qualcosa da mangiare, aspettando sulla porta. Ringraziava annuendo. E scappava via.
Rabesco ha fiuto.
Non si può essere precisi e dettagliati se si parla di lui. La sua figura si sta continuamente slontanando.
Mentre ti guarda indietreggia. E con lui se ne va anche la sua sfuggevolezza. Ma è un sottrarsi che permane, anche perché mentre se ne va – ti osserva.
Rabesco ha il sesto senso. Ha mosse tutte sue per orientarsi. Lui vede senza guardare. È come se conoscesse tutto da sempre. Agevolato dall’andamento regolare dei fossi e dei sentieri, dagli spazi ampi e ben battuti delle aie, dalla struttura lineare dei prati, Rabesco si aggira con sicurezza. Raramente inciampa ma in quel caso si sofferma, seduto, a pensare. La caduta lo sorprende come fosse sempre la prima volta.
Rabesco manca da tanto tempo. Tornerà? Si farà vivo? O nel frattempo è diventato uomo e ha imparato a camminare come tutti noi? In questo caso non lo vedremo più.
Qualche bambino prova a imitarlo. Ma nessuno si impegna più di tanto. Inciampano subito e si ride. Si ride ma si pensa a lui, a Rabesco, a Rabesco-che- non-torna.
Qualcuno sostiene di averlo visto passare veloce tra i campi.
Altri dicono che è stato notato a Venezia.
In una stalla è stata vista un’impronta sul fieno, così si parla di Rabesco che forse ha dormito qua.
Rabesco è irrequieto, sente il tempo. Sarà. Ma è vero che anche le nuvole sono strane, oggi. Si
atteggiano, si mettono in posa. Sfilano, come fossero consapevoli delle proprie figure. E Rabesco le imita, a volte, tra l’ilarità dei contadini. Gonfia le gote per simulare le nuvole più grandiose e agita le mani, quasi per spingerle ancora più in alto.
Domenica Rabesco è arrivato in chiesa. Che scatto, quando entra e si gira per guardare! Il profumo
d’incenso e le grandi pale d’altare incantano il ragazzo strano.
Ci osserva mentre preghiamo, lo attrae il segno della croce.
È da tanto, ormai, che Rabesco non si fa più vedere.
Dove sarà? Dove sarà finito?
Si fanno mille ipotesi. E ci si fa mille domande.
Sono passati nove anni dall’ultima sua apparizione.
Adesso è un uomo, se c’è.
Sarà mimetizzato tra gli uomini? Avrà scelto di camminare in avanti, come tutti?
Anche noi siamo diventati grandi. E ognuno, nella nostra contrada, ha il “suo” Rabesco. In memoria. E se lo tiene al sicuro, al riparo.
Si sta modificando, col tempo, la sua immagine...