MORT SUBITE di Franco La Cecla

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Language: Italian


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- Da quanto non venivi qui?
- Saranno anni, venticinque almeno.
- Da bambina.
- Beh, ti ringrazio, ero già grandicella.
- Come è stato stare lontana tutto questo tempo?
- Importante, volevo trovare un posto dove le strade non fossero asfaltate, i telefoni non prendessero e fosse possibile vivere con un altro ritmo.
- E ora sei tornata.
- I miei sono morti a distanza di pochi mesi, io non ho avuto il coraggio di tornare, non andavamo d’accordo da sempre e non sarei stata loro di alcun conforto, ma adesso sono qui a regolare un po’ di conti, anche con me stessa.
- Mi spiace, non li conoscevo, sennò ti avrei cercato.
- Non mi avresti trovato facilmente. Dimmi di te piuttosto.
- Solita vita, la vita che si fa qui, tutto molto regolato, programmato, adesso sono anche entrato nel grande sistema della neo-immortalità.
- Me ne hai parlato, ma come ti ci senti dentro? Io non riuscirei a sopportarlo.
- Sediamoci. Ti spiego, avevo davvero bisogno di lavorare, e c’era la possibilità di usare le mie competenze di antropologo. Sì è stato questo soprattutto, finalmente fare il mio lavoro.
- Anche se questo ti ha portato in regalo il fare parte di quelli che sanno.
- Non è che mi dia tanto fastidio, non ci penso, la mia ragazza sì, è preoccupata.

- Cos’hai scoperto?
- Che bello qui, sembra di stare un po’ in pace, ci sono perfino i ciliegi in fiore. Cos’ho scoperto? Che c’è gente che recede dal diritto a sapere, che fa di tutto per perderlo.
- Li capisco, a me l’hanno dato automaticamente quando sono rientrata, ma non credo che aprirò mai la busta.
- Secondo te perché lo fanno? Io te ti conosco, so perché hai voluto vivere lontana, ma loro che vivono qui perché lo fanno?
- Deve avere a che fare con l’attesa. Se sai, tutta la vita si trasforma in un conto alla rovescia.
- Ma anche se non sai, per quanto questi ci promettono la neo-immortalità.
- Maledetti medici di provincia, non capisci che loro ci tengono in pugno con queste promesse?
- Perché?
- Perché la cosa che ci hanno sottratto, dandoci al posto suo l’attesa – aspettare, vivere aspettando –, è la speranza.
- Cos’è la speranza?
- Il fatto che tutto può ancora sorprenderti, anche il fatto che morirai.
- Quindi secondo te lo fanno per questo?
- Non lo so, ma intuisco che c’è qualcosa che funziona in maniera diversa in quelli che non sanno come me. Lo sento perché tu sei cambiato.
- Dici?
- Sì, me lo fa pensare il fatto che tutto questo ti sembri normale, che sapere per te sia irrilevante.
- Sì, l’ho presa così, in maniera un po’ zen.
- No, non è vero, tu l’hai presa con la rassegnazione che vogliono loro. Nella speranza c’è l’illogicità del non sapere se io personalmente morirò.
- Ma appunto non è ragionevole.
- Lo è, perché il fatto che io non lo accetti come cosa normale crea la speranza.
- Ma è assurdo.
- Per niente, perché tra aspettare e sperare c’è un salto di qualità impressionante; e poi tu te lo sei dimenticato, ma può darsi che l’inaspettato nasconda davvero qualcosa.
- Ora ti metti a fare la mistica.
- No, ma la speranza crea un tipo diverso di organismo, il tuo corpo, la tua mente sono diversi, trasmettono agli altri cose diverse.
- Quindi secondo te è un fatto di sostanza, non è solo il fare finta di non sapere.
- È un fatto di sostanza e la gente cerca anche senza saperlo di riacquistare dei poteri perduti.
- Secondo te io sono cambiato a tal punto da non accorgermi di aver perso?
- Per fortuna ci sono qua io.

7

Questa cosa dovrei scriverla da qualche parte. Anche se vorrei che nessuno la leggesse. La parte meno esplorata della nostra società è quella dei rapporti tra le classi diverse. I poveri da noi sono quelli che non sanno, d’altro canto come sempre è successo in tutte le società. Ma per quanto sia perfetto, il sistema non impedisce i rapporti tra le classi. C’è un fascino particolare che chi non sa esercita su chi sa. Noi che sappiamo abbiamo l’impressione che chi non sa abbia ancora una chance. E da parte loro c’è una sete nei nostri confronti che è sete di sicurezza, certo, ma anche di dare qualcosa a noi. In molte storie di sesso, in molte storie d’amore il comandamento è di non dire, che meno si dice e meglio è. Ma in alcune storie “si dice”, colui che sa si rivela con la promessa di un sigillo su ciò che rivela. Il rapporto diventa diverso, a volte disperato, a volte si consolida, ma poi rimane sempre il sospetto che l’altro, chi non sa, rimanga molto più libero di noi. Sono proprio queste storie che incontro in questi giorni. Ci sono coppie miste in cui la prova d’amore è che chi non sa paghi per sapere la data della propria morte. Così da potere regolare insieme una vita. Il sistema potrebbe fare accoppiare effettivamente solo coloro che abbiano una relativa gemellarità di durata. Ma se questo è l’ideale e molti ricchi pagano per permetterselo, la vita poi va avanti per i fatti propri ed è piena di eccezioni. Che non sono benviste ovviamente. Nel campo che sto indagando accade anche il contrario: che chi sa e ama qualcuno che non sa voglia passare dalla sua parte e faccia di tutto per dimenticare di sapere, per sapere di meno: ecco chi fugge al canone, chi non vuole essere più raggiunto dall’informazione. È l’unico modo di offrire all’altro la garanzia che si accetta il suo non sapere e che si può stabilire un patto. Chi lo fa lo fa di nascosto, non lo dice in giro, però accade, e accade sempre più spesso. Questa è la parte più semplice del mio lavoro. Ce n’è poi un’altra che sta emergendo e che non capisco ancora. Incontro uomini e donne con un’aria spaventata, che sembrano volere fuggire a qualcosa. Sono fuori dal mio campo diretto, ma spesso sono come protette dalle persone di cui mi occupo. Ieri ho incontrato un tale che aveva smesso di pagare il canone – me l’ha confessato in un momento di ubriachezza comune – e che cercava un rifugio per un’amica, mi ha chiesto se potevo aiutarlo. Un’amica che non sapeva e che non voleva sapere e che invece qualcuno perseguitava perché sapesse. Non ho capito subito, non riuscivo a concepire una cosa del genere. Chi poteva essere? Ho sempre pensato che sapere sia un privilegio e che chi non sa, se potesse, vorrebbe sapere. Vengo invece a conoscenza di persone che appartengono a uno strato della società che non vorrebbe sapere, che ha scelto di non sapere. Su di esse qualcuno, oggi, cerca di avere un’influenza pesante, perseguitante, perché anch’essi debbano sapere. Chi è? Fa parte del sistema (e come potrebbe non farne parte se ha accesso ai dati?) oppure fa parte di un contro-sistema – qualcuno che è entrato nel sistema e ne ha rubato i dati? E in entrambi i casi, perché vorrebbe costringere la gente a sapere? E soprattutto, come fa chi è perseguitato a sfuggire?

5

Una riunione notturna in una località fuorimano, una valle scavata da un fiume inquinato fin nelle più piccole particelle da secoli di industrializzazione.

Piacevole sapere di essere anche solo per un po’ non leggibili.

Chi parla è un giovane con una capigliatura rada, pantaloni di fustagno, una camicia a quadri. Mette ogni tanto sul fuoco un ceppo nuovo di legna.
Accanto a lui cercano di riaversi dal freddo due altri giovani. Uno con i capelli lunghi e una barbetta incipiente, l’altro un po’ più anziano magro e allampanato si pulisce gli occhiali.

Per loro non lo siamo comunque, anche quando ci leggono.

Non hanno ancora abbastanza dati e sperano che ci facciamo fuori prima, o che qualcuno ci sistemi la testa per renderla più trasparente.

Quello accanto al fuoco:

Il fatto è che loro sanno che il sistema non funziona del tutto proprio a causa nostra, ma non sanno che noi sappiamo e che possiamo diventare ancora più resistenti.
Hai messo a punto qualcosa?
Niente di che, ma si tratta soprattutto di cancellare dati, di confonderli, di provocare crepe nella loro sedicente scienza.
La cosa più importante è far capire a sempre più gente che solo chi non sa può essere imprevedibile.
Certo, dice il tipo che si occupa del fuoco, ma attenzione, i nostri nemici non sono solo quelli del sistema, ma anche quelli dell’antisistema, e forse sono le stesse persone.

3

Marco si voltò verso Elena e rimase in silenzio per alcuni secondi.

- È proprio questo che vuoi?
- Mi sembra che ne abbia il diritto.
- Ma cosa cambia?
- Non sono tranquilla
- Ma non ci amiamo lo stesso?
- Sì, ma così è solo un’avventura.
- Sai che non è vero, lo sai quanto me.

Elena si sporse a guardare fuori dalla finestra, restò per un po’ sospesa, le sue mani cercavano di sciogliere il nodo del filo che teneva bloccata la tenda arrotolata sopra di lei.

- Fallo per dimostrare che mi ami.
- E poi?
- Poi tutto sarà più semplice.

Il gatto le si arrampicò sulle gambe e lei lasciò che vi si sistemasse, ad occhi chiusi, e sentì che il corpo dell’animale cominciava a vibrare.

Marco li guardò entrambi per un po’.

- Perché non potrei essere come il tuo gatto?
- Che vuoi dire?
- Lo ami anche se non sai.
- È un gatto.
- Appunto.
- Mi fa stare male questo tuo atteggiamento, come se non volessi avere un futuro con me.
- Sai che è in contrario, solo che io non voglio essere condizionato dal sapere.
- Ma perché non vuoi essere normale come tutti?

 

Franco La Cecla è un antropologo italiano, uno scrittore e un architetto. Ha insegnato, tra le altre, all'Università di Bologna dove attualmente lavora al Laboratorio di ricerca sulle città, Istituto di Studi Superiori (DAMS), all'Università di Palermo, allo IUAV di Venezia, all'Università della California a Berkeley, all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. È consulente del RPBW (Renzo Piano Building Workshop).Nei suoi lavori ha affrontato a più riprese il tema dell'organizzazione dello spazio contemporaneo tra localismo e globalizzazione, rivolgendosi in particolare alle soglie, e ai confini tra le culture.Ha pubblicato diversi libri in particolare con le case editrici Eleuthera, Nottetempo, Mondadori, Einaudi e Milieu Edizioni.

Franco La Cecla is an anthropologist, essayist and achitect.

—Cover photo by Benedetta Grasso—

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