RESACA di Antonio Picasso
Pubblichiamo il Capitolo V del romanzo “Resaca “ di Antonio Picasso, in attesa di pubblicazione, per gentile concessione del suo autore. Questo capitolo cattura alcuni temi storici di sottofondo, le dinamiche dei giovani protagonisti, l’atmosfera.
Sinossi del romanzo: Lorenzo Sgorfio è nerd in un liceo privato milanese negli anni Novanta. Massimiliano Keller è un tipo sveglio e maledetto. Finite le scuole, i due amici si perdono di vista. Il tempo passa e Sgorfio diventa un manager di successo, ma un incidente sul lavoro e una compulsiva ricerca su Facebook attivano un rigurgito di ricordi. Resaca, in spagnolo la risacca del mare, è la storia di una generazione di mezzo. Ragazzi degli anni Novanta, costretti a vivere una brutta copia degli Ottanta e un preludio insipido dei Duemila.
The 90s in Milan, the peak of Gen X’s teenage years, through the words of someone who was young back then, stuck in a bad sequel of the 80s and a bland prequel of the new millennium.
V
Il corpo senza vita e imbrattato di sangue penzola da una balaustra di metallo come se fosse uno strofinaccio. Intorno a lui i superstiti accettano passivi l’abbraccio della morte. Macchine sventrate, sventrate le persone. Chiazze di rosso, fumo, sporcizia non meglio identificata. Sui volti non è ancora apparso il disastro. La gente non ha capito di aver perso un proprio caro. Orfani, vedove e orribili mutilati sono appena venuti al mondo. La consapevolezza di questo nuovo stato di vita è dietro l’angolo. Il contraccolpo all’esplosione richiede qualche minuto per ripigliarsi. All’inizio si è sordi, la vista è confusa, le ossa paiono strizzate come se qualcuno avesse provato a tirarne fuori il midollo. Quello che succede intorno non esiste.
Le immagini continuano a scorrere senza volume. Le scritte in sovraimpressione dicono: “Sarajevo: un colpo di mortaio colpisce il mercato – Più di 60 morti e 140 feriti”.
Andrea alza la testa dalla chitarra. Per una manciata di secondi, gli occhi a mezz’asta gli restano incollati al televisore. Poi si volta e guarda Valerio.
«Che mondo di merda».
«Per cosa?» Risponde l’amico.
Andrea indica le immagini in televisione.
«Che è?» Chiede Valerio, con la bocca aperta e la faccia livida. Lui della guerra in Jugoslavia non ne sa nulla. Gliene importa? Potrebbe. Ma non ha la forza per metterci un po’ di concentrazione.
Ha il cervello che sta giocando con immagini senza dimensione. Le cose si muovono come fotogrammi di cartoni animati in bianco e nero. È fatto.
Cinque ore prima Airaghi gli ha messo sotto la lingua un coriandolo di carta, grande quanto l’unghia di un mignolo, imbevuto di LSD purissimo. Sapore: zero. Valerio si è sentito strano dopo un’ora e mezza. Se n’è accorto quando gli alberi di via Mac Mahon hanno iniziato a danzare. Mille ballerine dipinte di nero e col nastro alla mano disegnavano nel cielo rigato dalla pioggia figure carezzevoli insignificanti. Passa un istante e si trasformano in una copula perfetta. Uomini dal corpo di leone e la coda di pavone si offrono a vergini sfingi. L’acqua che scende dal cielo è una rapsodia di violini scordati che urlano acuti come rasoi che graffiano i vetri.
Valerio ha paura.
Guarda Andrea, Airaghi e Franco. Com’è che sono lì? Quello è lo studio di suo padre. Chi li ha fatti entrare?
Resta a fissare, fuori dalla finestra, la linearità delle gambe di un travestito.
Le pupille sono una capocchia di spillo.
«Questa roba non mi fa nulla». Aveva imprecato appena ingoiata la carta. Poi la bomba.
«Con questa roba ci voglio restare per tutta la vita».
Franco si è fatto prendere da una risata isterica, che ancora non gli è passata.
«Big wheels keep on turning
Carry me home to see my kin
Singing songs about the south-land…»
Airaghi s’interrompe. Non si ricorda come va avanti. Fissa la chitarra e riprende fiato.
«Ah sì!» Ricomincia, con un urlo rauco e armonico.
Nella stanza c’è anche un altro tipo che Valerio non ha mai visto, o forse sì. Sta depositando una piccola striscia bianca sulla scrivania.
«Non fare l’idiota», gli dice Airaghi. «Aspetta a pigliare quella roba. Non sappiamo neanche se è buona».
Ma quello non lo ascolta. È impaziente, aggressivo. «Aspettare?! Se voglio farmi di qualcosa è perché ne ho bisogno subito».
A Valerio viene la voglia di cacciare tutti. Come si permettono di stare lì? Però è vero: piove e una volta tanto non sono al parchetto di via Marina, a imbottirsi di chilum sulle panchine, con il rischio che passi la polizia. E poi per l’LSD serve un tetto, bisogna stare al caldo e avere sottomano dello zucchero, del tè, dei biscotti. Può succedere che uno collassi, almeno può andare a sboccare in un gabinetto e poi svenire sul divano che sta in ingresso.
Il suono del citofono fa esplodere i timpani a tutti. Franco a momenti cade dal divano. La riga di coca, perfetta e compatta, si disperde in granelli luminosi. Il tipo tira giù una bestemmia
«È Keller!» dice Valerio. «Ha portato da bere».
Tra quando gli aprono e il suo ingresso passa una vita. L’acido allunga i tempi.
Con Max c’è pure Sgorfio.
Quello della coca è sempre più nervoso, però adesso sorride e punta fisso su Sgorfio.
«Max, non potevi portare qualche tipa?!»
Keller dà un’occhiata alla televisione accesa e cerca un posto dove poggiare le birre e due bottiglie di vodka al mirtillo.
«Francamente in questo schifo sarebbe difficile portare anche la più cozza della scuola».
«Sei il solito snob, basta dire che qui ci sono sette, otto quanti siamo contenitori di ormoni e vedi che qualcuna la trovi. Keller, dai, proprio Sgorbio mi devi portare?!»
Sgorfio pensa a come rispondergli, lo fissa, come fa l’altro. Non ha voglia di litigare con un intostato di coca, che se gli gira può anche mettergli le mani addosso. Non sa neanche perché è lì. Forse per controllare che Keller non si metta nei casini. Stasera Max è pieno come una Molotov. Aveva la fiatella alcolica già quando si sono incontrati. Chissà come riesce a bere di sgamo in casa.
Si sente osservato. Conosce il tipo della coca: figo, pettinato, con le Stan Smith pulitissime, il colletto della Ralph Lauren sparato su come se fosse inamidato. Sta in una classe al secondo piano. È noto perché si è fatto una di quinta mentre lui è ancora in seconda. Storie del genere ti fanno schizzare in aria il punteggio.
Quello tuffa la testa sulla seconda striscia e se la risucchia nel naso rompendo il silenzio della stanza.
«Se stai male, io non ti aiuto». Gli dice Airaghi.
«Perché?» Dalla voce l’altro sembra soffrire. Un dolore basso-inguinale, come se fosse sesso vero.
«Perché tirar su adesso che sei in acido è sprecato e pericoloso».
Il tipo sembra non capire. Forse non ascolta nemmeno.
«Cioè una cosa è la botta della coca. E allora sei figo. Ti viene da prendere a calci nel ventre tua madre. Altro discorso è questa. Non vedi che siamo qui senza combinare nulla, per goderci un’idea che va oltre? Stiamo cercando l’abbraccio morbido della serenità».
«Luca, ma che cazzo dici? Perché tu adesso vuoi restare in casa?» Il tipo è sorpreso, non sono questi i suoi piani. Ha accettato questo giro di acidi perché giorni prima era con gli altri che stavano organizzando la serata. Aveva ascoltato e nessuno se l’era sentita di escluderlo. Una di quelle scene in cui si parla di una festa con gli amici e c’è il solito imbucato che dice «dai, vengo anch’io». E nessuno ha il coraggio di dire: «Ma chi ti vuole?»
«Sì, vengo anch’io». Aveva proprio detto così Brizzio. «Porto qualcosa pure io e poi andiamo al Propaganda, ok?»
Cose che si dicono e a cui tutti rispondono sì a mezza voce, come a dire tanto domani ti sei già dimenticato. E se invece te lo ricordi, cerca di non rovinare la serata, perché non è la tua.
Brizzio l’appuntamento con l’acido se l’è memorizzato in quelle quattro cellule che gli sono rimaste e adesso cerca anche di monopolizzare il momento. Non gli piace la musica che hanno messo, ha fame, dice che bisogna sbrigarsi perché davanti al Propaganda lo aspetta un tipo con i free drink. Eccheppalle! Pare anche che abbia fatto casino con il pusher amico di Airaghi.
Sgorfio nota che nessuno gli dice nulla. Vorrebbe essere lui il primo a insultare ‘sto pirla che lo chiama Sgorbio e gli dice che puzza. Però nemmeno lui protesta. Non può, è da solo.
Keller sta bevendo a canna la vodka, in attesa che gli arrivi qualcosa da fumare. Intanto guarda il tiggì.
«Sarajevo, che merda».
«L’ho detto anch’io. Non m’a sentito nessuno». Commenta Andrea, mentre controlla se Valerio è sveglio. Ha un’apprensione particolare per quel ragazzo. Secondo un’amica è il senso di colpa, visto che fino a poco tempo prima Valerio non era così. Una cannetta e via, raggiungeva gli amici delle medie per giocare a Risiko alla ludoteca di corso Sempione. Nessun eccesso. Girava sempre in bici. L’estate la passava al Forte dei Marmi. Tutto molto schematico e discreto. Ora Valerio è uno schifo. Da quando si è unito al nocciolo duro di quelli di via Marina, la cannetta è diventata una marmitta, il Jack Daniel’s ha sostituito la birretta e la bici, con cui insiste a girare per Milano, è sempre più traballante. Non si regge più in piedi. A scuola poi meglio lasciar perdere. I genitori hanno avuto da poco una bambina. Quindic’anni di differenza con il fratello maggiore, che vuoi che gliene importi a due quarantenni professionisti un po’ spiantati se Valerio si butta nei cessi delle discoteche milanesi, quando c’hanno da crescere una creatura bella come un fiore?
Lollo si sveglia sudato. Katia respira profondamente al suo fianco. Dorme come ancora dorme tutto il palazzo. Il silenzio lo spaventa.
Vent’anni da quella notte. È passato tutto, quelle cose sono lontane, ma la traccia non va via.
Succede.
Succede che alle volte, magari camminando sotto la pioggia una sera d’inverno, oppure incrociando gli occhi di un tipo in tram che somiglia a gente incontrata e poi abbandonata per strada, beh, succede che ti rimonti tutto in testa. È un rigurgito di memoria che torna su: acido, sa di vomito primordiale del cervello.
Una fotografia ad altissima definizione.
E allora ecco che Franco s’addormenta sul divano e continua a ridere nel sonno, Airaghi e Andrea suonano, finalmente in maniera decente, Keller beve e sogna.
Era stato proprio Lollo a infrangere l’idillio. Aveva aperto la finestra, per lasciar entrare un po’ d’aria decente. Da fuori aveva fatto invasione il freddo. All’improvviso, quel gruppo di ragazzi, ciascuno sparato in assurdi pianeti, si era sentito avvolto dalla pioggia. L’acido enfatizza le percezioni. Ad Airaghi pareva che gli piovesse in testa. Andrea aveva iniziato a sfregarsi le mani e le braccia. «Mi sento bagnato, non si può fare qualcosa?»
«Se volete chiudo». Nessuno lo sente Lollo. «Volevo solo cambiare un po’ l’aria».
Ragazzi di buona famiglia, fatti e con le gote in un attimo rosse paonazze per lo sforzo di cantare e reggere l’acido. Sgorfio si era innamorato di quella scena. Luca, fino ad allora, non gli aveva dato molta retta. Ma da quella sera aveva capito che era un mito. Keller aveva ragione. E poi c’erano Andrea e quell’altro tizio.
«Cazzo, Mattia Brizzio».
«Ma con chi parli?» Katia si è svegliata.
Lui va in bagno, ha bisogno di tornare ad allora.
Quella è stata la prima volta che lui e Mattia si siano parlati. L’unica conversazione civile, fatta di quattro parole, poi l’inferno.
Mattia Brizzio si faceva accompagnare a scuola in Porsche dal padre. La mattina presto, così il bravo genitore si levava dalle palle il figlio e quest’ultimo poteva scopiazzare compiti un po’ da tutti. Alle sette e un quarto però la scuola era ancora chiusa, così Mattia si metteva a orinare sul portone. Una, due, tre volte, la tradizione era diventata uno spettacolo che attirava gente.
«Povero Danilo!» Gli aveva detto una volta la Valentina.
Danilo era il bidello che una mattina aprendo l’uscio si era bagnato le mani e si era emozionato. «È come stare in campagna!» Aveva scambiato la minzione di un giovin signore in nobile rugiada.
«Lasciami finire». Aveva risposto Mattia.
Il finale tra Mattia e la Vale si sarebbe consumato poche ore dopo nel bagno dei ragazzi al primo piano. Tra l’ora di storia e biologia. Nessuno dei due si era immaginato che sarebbe successo e dopo nessuno dei due aveva ritenuto necessario proseguire la faccenda. Anzi, entrambi avevano deciso di sotterrare quei cinque minuti di amplesso.
Tuttavia, di quel segreto c’era stato un testimone. Sgorfio era chiuso nel bagno a fianco, preso da un attacco di diarrea nervosa. Era scappato a liberarsi dei suoi incubi lontano dalla classe.
Quella sera da Valerio, Sgorfio aveva avuto la conferma dello schifo di uomo che era Brizzio.
«Ciccio bello, sai che mi son fatto la tua Carocci?» Brizzio entra in tackle su Valerio come Vierkowood su van Basten.
Valerio vacilla. La Carocci. La sua Betta, che l’ha lasciato due mesi fa. E ora lui non dorme più, non ha fame e non parla d’altro. Tutti a stargli dietro: pacca sulla spalla e sorriso di comprensione.
Brizzio rilancia: «Me l’hai lasciata vergine!»
Lollo fissa la mail di Hillel. Take care.
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Antonio Picasso (Milano, 1976) giornalista e consulente di comunicazione. Inizia scrivendo di economia, poi passa agli esteri. Nel 2010, pubblica con Cooper “Il Medio Oriente cristiano”. Poi cambia mestiere. Attualmente è consulente di comunicazione per istituzioni e aziende